di Maurizio Quilici *
Nelle settimane scorse l’opinione pubblica ha seguito con apprensione e sgomento la vicenda del piccolo Eitan, il bambino di sei anni unico sopravvissuto allo schianto della funivia del Mottarone. Un bimbo che il 23 maggio scorso ha perso i genitori e il fratellino e che, dopo essere stato affidato da un giudice italiano alla tutela della zia paterna, è stato rapito dal nonno materno e portato in Israele. L’uomo, Shmuel Peleg, un ingegnere elettronico di 58 anni con alle spalle una carriera nell’esercito israeliano fino al grado di tenente colonnello e poi, dopo le dimissioni, un’attività in importanti aziende private, ha portato a termine un piano ben organizzato e con probabili complicità. L’11 settembre ha preso il nipotino esercitando il suo diritto di visita (dopo la tragedia l’uomo si era trasferito a Pavia per essere vicino a Eitan), lo ha fatto salire a bordo di un’auto con la quale si è diretto a Lugano e da qui è volato in Israele a bordo di un jet privato.
Nel passato di Peleg c’è anche una condanna a 15 mesi con la condizionale per maltrattamenti nei confronti della ex moglie, Esther Cohen (anche lei indagata per sospetto favoreggiamento nel sequestro). In una delle tante interviste l’ingegnere ha minimizzato: “Sono fatti accaduti 20 anni fa, durante il divorzio, e che non mi hanno impedito di ottenere l’affidamento congiunto dei figli”. Questo precedente non ha nulla a che vedere con il rapimento di Eitan e mi pare che non dovrebbe incidere sulle decisioni dei giudici, ma certo non contribuisce all’immagine di “nonno ideale”.
Ora Eitan è conteso da due famiglie, quella del padre e quella della madre. “Stava facendo un percorso di recupero per il trauma subito ed era già stato iscritto alla scuola elementare, Istituto delle Canossiane di Pavia”, dice Aya Biran, sorella del padre di Eitan. “Non lo abbiamo rapito” – ribatte Gali Peleg, sorella della madre del bambino – “lo abbiamo riportato a casa, così come volevano i suoi genitori”. Come sempre in questi casi, ognuna delle parti difende il suo operato, affermando di agire per il bene del minore e in nome dell’amore che si prova per lui o lei. Qui, però, ci sono dei fatti oggettivi: c’è un rapimento, un sequestro, una violazione di leggi e disposizioni… Il tutto a danno di un bambino che aveva già subito uno dei traumi peggiori – forse il peggiore – che potessero colpirlo e che non meritava certo questa ulteriore violenza. C’è il fatto, direi essenziale, che il bambino ha vissuto sempre in Italia, dove era giunto quando aveva poco più di un mese. Qui aveva i suoi amici, qui giocava con le sue cuginette, qui era stato iscritto alla prima classe elementare, dove lo aspettavano il 13 settembre. Certo, come tanti bambini che, per le vicende dei genitori, vivono la realtà di due Paesi, Eitan – che aveva la doppia cittadinanza – ogni estate trascorreva le vacanze in Israele.
Come sempre in questi casi qualcosa sembra non aver funzionato nelle precauzioni che dovrebbero scongiurare l’ipotesi di un sequestro e di una fuga. L’11 agosto il giudice tutelare aveva disposto il divieto di espatrio; al nonno di Eitan era stato ordinato di restituire il passaporto del piccolo entro il 31 agosto, ma l’uomo si era guardato bene dall’obbedire. Perché, alla scadenza dell’obbligo, nessuno è intervenuto? A quanto pare la polizia teneva d’occhio Peleg e aveva installato un GPS sull’auto che Peleg usava, dopo averla noleggiata. Ma è bastato che l’uomo sostituisse l’auto con un’altra, sempre noleggiata, perché il controllo venisse meno. Quindi all’aeroporto di Lugano nonno e nipote si sono presentati senza problemi e muniti di passaporto. Rimane il fatto che il nome di Eitan doveva essere nel database europeo che raccoglie i nomi di quanti vengono segnalati ai posti di frontiera proprio per evitare un espatrio illegale. E allora? Il nome era stato inserito? E se sì, perché i doganieri svizzeri hanno permesso il decollo? Preciso che nel ripercorrere i passaggi di questa vicenda mi baso sulle notizie di stampa, che, naturalmente, potrebbero non essere del tutto precise. Ora, non sono tanto le ricostruzioni a posteriori che ci interessano, tuttavia se le barriere studiate per evitare sequestri internazionali di minori funzionassero davvero casi dolorosi come questo sarebbero meno frequenti. Molti genitori, poi, che hanno subito il rapimento di un figlio, vorrebbero che il reato non si configurasse come “sottrazione di minore”, ma come “sequestro di persona”, punito ben più severamente. Se, infatti, la sottrazione e trattenimento di minore all’estero (art. 574 bis CP), fattispecie di reato introdotta con la Legge 15 luglio 2009, è punita con la reclusione di uno a quattro anni se il minore è infraquattordicenne, il sequestro di persona (art. 605 CP), ove commesso in danno di un minore condotto o trattenuto all’estero, è punito con la reclusione da tre a quindici anni.
Ci colpisce immaginare quello che dovrà attraversare il bambino, che intanto è passato da un ospedale italiano (dove veniva curato per lenire il trauma della tragedia) ad uno israeliano (“trattato” – afferma la zia materna con orgoglio – “da uno staff medico di primo livello”). Si prospetta uno scenario di tempi lunghi e di lunghe sofferenze per Eitan. Entrambi i Paesi sono firmatari della Convenzione dell’Aia del 1980, nata proprio per tutelare i bambini da situazioni come quella di cui è stato vittima Eitan. La Convenzione prevede che, in caso di sequestro e trasferimento in un altro Paese, si debba anzitutto ripristinare la situazione quo ante, ossia che il bambino debba rientrare nel Paese dal quale è stato sottratto, la cui magistratura esaminerà poi il caso (entro sei settimane, prevede la Convenzione). Più semplice a dirsi che a farsi. Nel caso in questione, per esempio, sarà un giudice civile israeliano a decidere un (eventuale) ordine di rimpatrio. Eventuale, dicevo, perché la stessa Convenzione prevede che il giudice che deve decidere la restituzione del minore valuti prima le circostanze del rapimento, i motivi ed escluda che il rientro del bambino possa esporre questo a rischi di maltrattamenti o comunque di disagio e sofferenza. Tutto questo comporta una vera e propria istruttoria, con perizie di vario genere e audizioni di varie persone. Il tutto con l’obiettivo – in teoria più che legittimo – di tutelare l’interesse del minore.
Ora, è evidente che questi accertamenti richiedono molto tempo (quando non si voglia mettere in conto – purtroppo accade anche questo – uno schierarsi più o meno manifesto delle autorità straniere a favore del proprio cittadino); passano facilmente molti mesi, a volte anni, di uno straziante tira-e-molla. Spesso con un risultato paradossale che sa di beffa: alla fine il giudice deve constatare che il bambino ha ricreato un suo ambiente, si è adattato alla nuova realtà e che sradicarlo costituirebbe un ulteriore trauma. Così nega il rimpatrio. Fine dei giochi.
Di sottrazioni internazionali di minori l’I.S.P. ne ha viste molte, per lo più legate a separazioni e affidamenti, e qualcuna l’ha vissuta da vicino. I soci meno giovani ricorderanno il caso di Osvaldo Costa e la sua inutile battaglia contro gli Stati Uniti; e in tempi più recenti quello del “papà di Erik” – come ama firmarsi – che da anni percorre il suo calvario per ritrovare un figlio portato illegalmente dalla madre in Ucraina. La storia di quel rapimento è raccontata da lui stesso in ISP notizie n. 4/2013, con il titolo Natale senza Erik. Sono vicende dolorose che mettono in evidenza il profondo egoismo di uno dei genitori (o di un parente, come in questo caso) e la sicura sofferenza di un bambino. Quella sofferenza che è inevitabile in una separazione, ma che può raggiungere forme di inaudita crudeltà (e gravi danni nella psiche del minore) quando i genitori si contendono i figli con ferocia e assoluta mancanza di rispetto (lasciatemi dire, di amore) verso i figli stessi. Quando poi, come nel caso di Eitan, non c’è solo lo strazio di una contesa e di un brutale rapimento ma il dramma di una indicibile, recente perdita, gli effetti disastrosi possono moltiplicarsi.
Anche qui i ricordi di tanti anni del nostro Istituto mi riportano alla mente episodi passati. Non dimenticherò mai il caso di un bambino (se ricordo bene aveva una decina di anni) che era conteso dai genitori in un modo orribile. Bastavano dieci minuti di ritardo alla fine del “diritto di visita” per il padre e subito la madre chiamava i carabinieri; anche il padre non perdeva occasione per far intervenire i militari, o la polizia, per esempio quando la madre ostacolava la frequentazione con il bambino ignorando le disposizioni del giudice. E naturalmente liti, scenate, denunce… Era uno strazio per quel bambino e l’I.S.P. fece di tutto per fare capire al padre l’errore grave dei suoi comportamenti (cercammo di contattare anche la madre, ma non ci fu verso). Finché un giorno – mi fu raccontato – all’ennesimo intervento delle forze dell’ordine nell’ appartamento di uno dei genitori, si udirono urla e pianti provenire da una stanza. Padre e madre si precipitarono e videro il figlio che era salito sul davanzale di una finestra e gridava che si sarebbe gettato di sotto perché non ne poteva più di una vita così. L’episodio segnò la fine del nostro rapporto con quel padre e non ho mai saputo se i due genitori avessero imparato la lezione. Credo di sì, se un barlume di amore “vero” per il figlio lo avevano ancora.
Io non so come finirà la vicenda del piccolo Eitan, che intanto è divenuto un caso mediatico e questo certo non gli fa bene. Attorno a lui e ai suoi parenti, in Israele, giornalisti e microfoni e videocamere, interviste radio e TV… Suona un po’ superfluo il richiamo della Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, il magistrato Carla Garlatti, che ha raccomandato di esercitare il diritto di informazione “nel rispetto delle norme a tutela della personalità dei minorenni”, evitando “speculazioni e sensazionalismi”. Ammonimento legittimo e doveroso, ma che andrebbe rivolto ai media israeliani, più che in casa nostra. Così come suona sacrosanta, ma, come dire, un po’… ingenua e semplicistica la frase che si può leggere sul sito della Farnesina alla voce “Sottrazione internazionale di minori”, dopo varie indicazioni operative e suggerimenti: “C’è una sola ‘prevenzione’ possibile per evitare situazioni di conflitto: privilegiare l’interesse superiore e primario del minore, cercando di raggiungere un accordo sulle modalità di affido e/o di visita”.
Vorrei che quel bambino potesse vivere una vita serena (anche se temo che il passato non lo abbandonerà mai). Vorrei che potesse conoscere anche momenti di felicità, gioia, spensieratezza come è diritto di ogni bambino. Vorrei che gli adulti che se lo contendono facessero il contrario di quello che stanno facendo.
- Presidente dell’I.S.P.