di Laura Romano *
Tante, troppe risultano essere le notizie di cronaca – purtroppo anche recentissime – che riferiscono i drammatici suicidi di adolescenti e giovani che, avendo scoperto la propria omosessualità e temendo il giudizio, la riprovazione, addirittura il rifiuto (anche violento) da parte dei coetanei e, in particolar modo dei genitori, si uccidono.
A colpire particolarmente e a rendere necessaria un’approfondita riflessione sono, a mio avviso, alcuni elementi. Innanzi tutto, va evidenziato come i suicidi sembrino riguardare con netta prevalenza percentuale i maschi piuttosto che le femmine, quasi l’omosessualità si ponesse come situazione drammaticamente problematica, fino all’esito estremo, nel genere virile piuttosto che in quello femminile; in secondo luogo, quanto il timore del discredito e del rifiuto sia riferito dai ragazzi soprattutto al genitore omologo, dunque al padre e decisamente in misura minore alla madre – che appare più aperta, disponibile, tollerante; e, infine, il terzo aspetto che mi pare significativo è riferibile all’atto suicidario vero e proprio: i ragazzi tragicamente protagonisti degli eventi di cronaca hanno scelto un gesto “violento” per porre fine alla propria vita (gettarsi da un terrazzo, sui binari della metropolitana, impiccarsi…) modalità – statisticamente parlando – “tipicamente maschili” (le donne tendono a uccidersi con modalità differenti, per esempio attraverso l’assunzione di dosi letali di farmaci).
Questi elementi ricorsivi necessitano, a mio parere, di un’analisi e di un tentativo di comprensione, che condurrò dal mio specifico versante teorico e professionale, che è quello educativo.
Vi è una fase della vita – gli anni della preadolescenza, in particolare – nei quali l’avvio del graduale processo di strutturazione dell’identità di genere adulta comporta, per quasi tutti i soggetti, l’emergere di quella componente omosessuale che abita – in misura e con livello di consapevolezza e accettazione differente – ciascun individuo e, conseguentemente, l’interrogarsi sul proprio orientamento sessuale.
In effetti, a uno sguardo superficiale, alcuni atteggiamenti e comportamenti della ragazzina, del ragazzino potrebbero indurre a ipotizzare l’omosessualità. Con un sostanziale differenza, però. Due amiche che si abbracciano e si baciano quando si incontrano (abitudine che il genere femminile mantiene anche in tutte le fasi successive del ciclo di vita), che si scambiano effusioni e che si tengono per mano incontrano raramente un atteggiamento sociale di sanzione, poiché si ritiene “normale”, “naturale” che le femmine si comportino così. Ben diverso è se le medesime condotte vengono agite da due ragazzini; lo sguardo, il giudizio e, conseguentemente, il livello di tolleranza sono assai differenti e – già nella preadolescenza – i due amici diventano oggetto di battute sarcastiche, di prese in giro e commenti malevoli da parte dei coetanei e invitati a cambiare atteggiamento da parte degli adulti.
Eppure, in questa fase evolutiva, il significato dei comportamenti sopra descritti ha ben poco a che vedere con il vero e proprio orientamento sessuale, che si stabilizzerà soltanto qualche anno più tardi.
Lo sguardo e la lettura, tuttavia, risultano differenti per le ragazzine e i ragazzini, così come diverso è l’atteggiamento (dis)educativo degli adulti nei loro confronti.
Questa riflessione preliminare mi porta a ritenere che proprio tale atteggiamento assai più giudicante nei confronti dell’omosessualità maschile che di quella femminile sia uno degli elementi che favoriscono drammaticamente l’esito suicidario nei ragazzi piuttosto che nelle ragazze. In effetti, esiste un sentire diffuso che irride l’omosessualità maschile: le battute, le barzellette, le offese sono riservate – nel linguaggio comune e scurrile – ai “froci”, molto più che alle “lesbiche”.
La paura del giudizio, della marginalizzazione, di un prezzo insostenibile da pagare, dunque, pare opprimere molto più i ragazzi che le ragazze, spingendo più frequentemente gli uni piuttosto che le altre al suicidio. Tale paura è riferita tanto al contesto extrafamiliare (al gruppo dei pari, ai coetanei, in particolare) quanto al contesto intrafamiliare, ai genitori. E questo introduce la seconda riflessione.
I giovani maschi che più recentemente si sono tolti la vita e hanno lasciato un messaggio d’addio hanno espresso di temere o di essere certi della non accettazione della propria omosessualità da parte del genitore omologo, ovvero del padre.
Certamente, questo ha un significato profondo e ha a che vedere – a mio avviso – con il passaggio del testimone intergenerazionale della virilità.
Senza qui approfondire le teorie che riferiscono l’origine dell’omosessualità maschile a una particolare e ben definita tipologia di costellazione familiare (in cui il padre risulta essere una figura evanescente, debole, assente e ben poco significativa, mentre la madre è una presenza forte, dominante e intrusiva), ciò che credo importante evidenziare è come il genitore omologo sembri incapace di accettare l’impossibilità di un rispecchiamento, di una consegna dell’eredità della virilità al proprio figlio.
Dal punto di vista educativo, questo mi sembra significare qualcosa in particolare, ovvero il fraintendimento, la per-versione (nel senso latino del termine) da parte del padre del codice paterno, del suo significato e del suo valore.
Il codice paterno in quanto specifico approccio e stile pedagogico (che, ovviamente, non appartiene esclusivamente all’uomo/padre, ma anche alla donna/madre) fa riferimento ad aspetti quali le regole, i limiti, l’autonomia, l’assunzione di responsabilità, l’accettazione del fallimento e della frustrazione, la trasmissione etica… a tutti questi elementi e a molti altri che nulla hanno a che vedere con il genere, il sesso e l’esercizio della sessualità.
E dunque? E dunque il fraintendimento, la per-versione e l’esasperazione del codice paterno nella sua declinazione negativa e diseducativa portano a confonderlo con l’autorità, la forza, il potere, l’arbitrio, il decisionismo, con un profilo virile che tende a coincidere con una posizione che potremmo definire “attiva”, al contrario dello stereotipo del femminile, letto come “passivo” nei sentimenti, negli atteggiamenti e nei comportamenti anche sessuali.
Questa “passività sessuale” rappresenta ciò che un certo tipo di padre non può accettare nel figlio; basta pensare al linguaggio scurrile con cui fa riferimento all’atto sessuale fra gay per rendersi conto del fatto che è questa fantasia di passività a suscitare nei casì migliori ilarità, in altri disgusto, nelle situazioni peggiori violenza. Per la figura materna – e per la donna in generale – la fantasia della passività non suscita tanto sconvolgimento e, dunque, non genera un rifiuto così marcato.
Che dire, da un punto di vista pedagogico? Difficile – forse anche inopportuno – permettersi di dare suggerimenti su temi tanto intimi, delicati e personali; tuttavia, alcune considerazioni meritano di essere proposte. Innanzi tutto, occorre sottolineare come – dopo i 6 anni circa d’età delle figlie e dei figli – sarebbe opportuno che a occuparsi dell’educazione all’affettività e alla sessualità fosse il genitore omologo; questa abitudine consentirebbe poi, anche negli anni successivi all’infanzia, non certo un facile e aperto dialogo (nella preadolescenza e nell’adolescenza difficilmente una ragazza o un ragazzo condivide con la madre o il padre le proprie vicende sentimentali e sessuali), ma almeno favorirebbe la consapevolezza che – se si è turbati o spaventati – sia possibile fare riferimento a una figura genitoriale disponibile a un autentico ascolto, a un ascolto sorretto non dalla logica del giudizio, ma da quella della comprensione e della condivisione.
Nella mia attività professionale, invece, mi trovo troppo spesso a constatare come – mentre la madre continua a affiancare la figlia nell’educazione alla corporeità, all’affettività e alla sessualità anche dopo gli anni infantili, se non altro rispetto al menarca, al ciclo mestruale e a quanto ne consegue – il padre sia “latitante” e non offra questo accompagnamento al figlio maschio che, crescendo, non percepisce il genitore come valido interlocutore.
Certamente, esiste un’altra tipologia di padre fortemente inadeguata rispetto all’educazione all’affettività e alla sessualità dei figli maschi, quella che – probabilmente – rappresenta anche l’ostacolo insormontabile per i ragazzi omosessuali, ovvero la categoria che si vanta con il figlio della propria virilità, delle proprie conquiste, della propria super attività sessuale, (passata e, si spera, non presente, poiché si rivolge a un ragazzo in età evolutiva alle prese con la propria, di sessualità).
Infine, la terza riflessione. Rispetto a tutta la fantasticata passività dell’omosessualità e dell’espressione della sessualità correlata, occorre notare come l’atto suicidario di questi ragazzi non presenti nulla di “femminile”, tanto meno di “effemminato”; si suicidano – mi scuso per l’affermazione che potrebbe apparire paradossale o offensiva – in modo attivo, virile, con un gesto violento.
E anche questo dovrebbe far riflettere su quanto lo sguardo relativo all’orientamento sessuale sia intriso di stereotipi, di banalizzazioni e di fraintendimenti privi di fondamento, valore e significato rispetto all’identità di genere, alla femminilità e alla virilità. Occorrerebbe davvero, anche da un punto di vista educativo, iniziare a pensare riferendosi al soggetto in quanto persona, semplicemente persona, portatrice di una propria storia e di una propria identità.
* Consulente educativa e formatrice. ISP Como