Di particolare interesse e coinvolgente attualità è la questione – relativa al riconoscimento della indennità di maternità anche in favore del padre libero professionista – su cui soffermiamo, in questo numero, la nostra attenzione e la nostra curiosità, soprattutto all’indomani della recente pronuncia della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 105 del 23 maggio 2018, è tornata a pronunciarsi sulla legittimità degli articoli 70 e 72 del D. Lgs. 151 del 2001.
Ha ancora senso oggi parlare di indennità di “maternità” in un contesto sociale e giuridico in cui gradatamente sembra che vengano riconosciute anche in favore del padre una molteplicità di prerogative precedentemente “riservate” solo alla madre? Non sarebbe, forse, più opportuno parlare di indennità “genitoriale”? Il riconoscimento del beneficio in questione in favore (anche) del padre, seppur nel suo articolato percorso in itinere, è, allo stato, concreto ed effettivo? In favore del padre biologico o soltanto in favore del padre adottivo e/o affidatario? Perché sopravvive questo discrimen?
Potrebbero essere solo alcuni degli interrogativi che meriterebbero una risposta nell’approcciarsi a un argomento che indubbiamente sembra avere dei riflessi pratici immediati: a un papà è incondizionatamente riconosciuta, in alternativa alla madre, la indennità di maternità nelle ipotesi tipizzate dalla legge?
La risposta sembrerebbe dover essere (scontatamente) positiva, anche sulla scorta del dettato della Corte Costituzionale che ha chiarito fermamente come occorra garantire “un’effettiva parità di trattamento fra i genitori nel preminente interesse del minore” e, invece, la quotidianità ci ha parlato, e ci parla, di un percorso più impervio del previsto, che ha visto radicarsi diverse distonie, a cominciare da quel gigantesco paradosso del discrimen fra padre biologico e padre adottivo e/o affidatario, nel riconoscimento della indennità di cui si discute: nel già complesso e articolato percorso di realizzazione della parità di trattamento fra i genitori, il padre scopre che essere padre biologico (e non adottivo e/o affidatario) può… essere un problema!
E, allora, cerchiamo una risposta a quelle domande, sperando che il panorama normativo e giurisprudenziale ci possa venire in soccorso.
Con il D. Lgs. 151 del 2001, il nostro legislatore aveva predisposto una molteplicità di previsioni a tutela e a sostegno della maternità (e della paternità) che riconoscevano, almeno in parte, ad entrambi i genitori il diritto di astenersi dal lavoro per potersi occupare della cura dei figli.
In particolare, il dettato normativo di cui all’art. 70 del D. Lgs. n. 151/2001 disponeva che “alle libere professioniste, iscritte ad un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza di cui alla tabella D allegata al presente testo unico, è corrisposta un’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi alla stessa”; al contempo, l’articolo 72, comma primo, del provvedimento legislativo in questione, prevedeva, prima della novella del 2015, che “l’indennità di cui all’articolo 70 spetta altresì per l’ingresso del bambino adottato o affidato, a condizione che non abbia superato i sei anni di età”.
Ebbene, è evidente che il legislatore, inizialmente, aveva previsto il diritto alla percezione di un’indennità che consentisse (solo) alla madre di prendersi cura di sé stessa e/o del bambino nella prima fase della vita dello stesso, sia in caso di filiazione naturale, sia in caso di adozione, senza nulla prevedere, d’altro lato, in ordine al ruolo paterno.
È proprio in questo contesto normativo che si inserisce una prima importante pronuncia della Corte Costituzionale, lungo il sentiero di quel graduale processo di riconoscimento, a favore dei padri liberi professionisti, del diritto all’indennità genitoriale.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 385 del 14/10/2005, occupandosi del diritto al riconoscimento della indennità di maternità in favore del padre adottivo libero professionista, nel sottolineare come la tutela offerta dalla normativa non fosse completa – atteso che “la lettera della legge è esplicita nell’escludere che nella nozione possano essere fatti entrare coloro che esercitano una libera professione” – aveva ritenuto che “tale discriminazione rappresenta un vulnus sia del principio di parità di trattamento tra le figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e della tutela del minore”, in quanto “il fine precipuo dell’istituto, in caso di adozione e affidamento, è rappresentato dalla garanzia di una completa assistenza al bambino nella delicata fase del suo inserimento nella famiglia” e “il non riconoscere l’eventuale diritto del padre all’indennità costituisce un ostacolo alla presenza di entrambe le figure genitoriali”.
Sulla scorta delle suddette considerazioni, la Consulta, con la pronuncia in esame, dichiarava la “illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 D. Lgs. 26 marzo 2001, n. 151/2001, nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire, in alternativa alla madre, l’indennità di maternità, attribuita solo a quest’ultima”, espressamente statuendo, tuttavia, che “nel rispetto dei principi sanciti da questa Corte, rimane comunque riservato al legislatore il compito di approntare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre una adeguata tutela”.
Con la successiva sentenza n. 285 del 28/7/2010, sempre la Corte Costituzionale dichiarava inammissibile la questione di legittimità dell’art. 70 del D. Lgs. n. 151/2001, per mancata attribuzione al lavoratore libero professionista, che abbia avuto un figlio biologico, di beneficiare, in alternativa alla madre, della indennità in questione, rimarcando, così, la rilevanza del presupposto originativo della problematica, ossia genitorialità adottiva o genitorialità naturale.
Sul punto, il parere di autorevole Autore: “A seguito delle due decisioni ed in coerenza con esse, si è affermato che la posizione del padre biologico non è assimilabile a quella della madre, alla tutela della cui salute psicofisica (nel periodo antecedente e successivo al parto) sono poste le previsioni normative sulla indennità di maternità. È stata così negata al padre libero professionista la facoltà di beneficiare di essa (Cass. del 30/5/2016, n. 11129; Cass. 2/5/2016, n. 8594). A diverse conclusioni, invece, si è pervenuti in caso di filiazione adottiva: l’indennità in questo caso deve intendersi finalizzata a consentire il miglior inserimento del minore nella famiglia adottiva, composta da padre e madre (Cass. 15/1/2013, n. 809). Tale orientamento è stato confermato dalla decisione in commento. Può quindi dirsi che il padre libero professionista ed iscritto ad una cassa di previdenza, ha diritto di fruire dell’indennità di maternità, in alternativa con la madre, solo in caso di filiazione adottiva e non biologica” (così, Prof. Alberto Figone, in “Anche al padre libero professionista spetta l’indennità di maternità”, in Il Familiarista, 18/6/2018).
Con la recente statuizione n. 10282 del 27/4/2018, la Corte di Cassazione – sottolinea sempre il Prof. Figone nell’articolo citato – “…qualifica la decisione della Corte costituzionale come “additiva di principio” e precisa che pur «nel rispetto della competenza legislativa del Parlamento non può essere contestato che l’affermazione del diritto del padre adottivo libero professionista, in alternativa alla madre, a fruire dell’indennità di maternità ha natura imperativa e deve essere applicato con l’efficacia stabilita dall’art. 136 Cost.». … La Consulta, tenendo conto del superiore interesse del minore, ha eliminato un’irragionevole disparità di trattamento fra i genitori, a seconda del sesso. L’esercizio di un diritto non può essere subordinato all’emanazione di una disciplina in materia, dovendosi necessariamente fare riferimento a principi generali, proprio quando, come nella specie, non vi è contestazione fra i genitori in ordine al beneficiario della prestazione. Al giudice spetta, dunque, il compito di individuare la regola per il caso concreto, che possa rendere operativa la norma imperativa”.
Vero è che, nel tempo immediatamente successivo alla pronuncia della Consulta e in attesa di quell’intervento del legislatore, così come sollecitato dalla stessa Corte Costituzionale, teso alla regolamentazione della fattispecie nei suoi aspetti più “vivi e concreti”, “il diritto del padre adottivo libero professionista alla percezione dell’indennità di maternità, in alternativa alla madre, seppur affermato in linea di principio, non sembrava aver trovato un’immediata applicazione, atteso che la decisione della Consulta, per la sua indubbia natura di sentenza additiva, risultava priva di immediata efficacia precettiva” (in termini, Chiara Malpica, in “Adozione: indennità genitoriale a favore dei padri liberi professionisti, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale”, in La Previdenza Forense, 2/2018).
In un contesto molto “eterogeneo” come quello descritto ha cercato di fare chiarezza proprio la suddetta recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 10282 del 27/4/2018).
La Suprema Corte, in ordine alla necessità di attendere un nuovo intervento integrativo del legislatore per realizzare il principio di eguaglianza affermato nella citata sentenza n. 385/2005 della Corte Costituzionale, ha affermato che “non può essere contestato che l’affermazione del diritto del padre adottivo libero professionista, in alternativa alla madre, a fruire dell’indennità di maternità ha natura imperativa e, pertanto, deve essere applicato con l’efficacia stabilita dall’art. 136 Cost.”.
Il giudice della legittimità, infatti, ripercorrendo quell’iter logico-giuridico segnato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 385/2005, ha statuito, in assenza di contrasto tra i genitori sulla concreta modulazione dei rispettivi diritti, nel senso della efficacia autoapplicativa e non meramente dichiarativa della sentenza, con conseguente riconoscimento della natura imperativa (ed immediata applicazione) del diritto del padre adottivo libero professionista a fruire dell’indennità di maternità, in alternativa alla madre.
A tal proposito, i Giudici di legittimità hanno sottolineato che “l’illegittimità costituzionale ha colpito la norma nella porzione mancante, da cui derivava la violazione dell’obbligo di parità di trattamento, posto che la Corte Costituzionale con la sentenza invocata ha espressamente indicato che il fine di garantire una completa assistenza al bambino nella delicata fase del suo inserimento nella famiglia unitamente al raggiungimento dell’effettiva parità di trattamento fra i genitori, nel preminente interesse del minore, risulterebbero gravemente compromessi ed incompleti se essi non avessero la possibilità di accordarsi per un’organizzazione familiare e lavorativa meglio rispondente alle esigenze di tutela della prole, ed è per questo che deve ammettersi anche il padre ad usufruire dell’indennità di cui all’art. 70 del D. Lgs. 151/2001 in alternativa alla madre. È sotto questo particolare aspetto dell’individuazione della regola da adottare per disciplinare tra i genitori la delicata scelta di chi, astenendosi dal lavoro per assistere il bambino, possa meglio provvedere alle sue esigenze, in spirito di leale collaborazione e nell’esclusivo interesse del figlio (sentenza n. 179 del 1993), che la Corte Costituzionale ha attribuito al futuro legislatore il compito di apportare un meccanismo attuativo che consenta anche al lavoratore padre un’adeguata tutela. Ciò però, non può eliminare che la sentenza costituzionale esplichi effetti laddove il solo effetto dichiarativo della medesima pronuncia, come nel caso di specie, consenta di per sé il riconoscimento del diritto dell’odierna parte intimata ad ottenere l’indennità genitoriale, in ragione di quel diritto alla parità di trattamento che ha determinato la decisone della Corte Costituzionale in oggetto”.
La Corte di Cassazione, in detta pronuncia, ha, quindi, precisato che, in attesa dell’intervento del legislatore, il giudice a quo è, comunque, tenuto ad individuare, nel caso concreto sottoposto alla sua attenzione, la regola da applicare, al fine di dare attuazione al principio imperativo stabilito con la sentenza di accoglimento della Corte Costituzionale.
Di poco successivo alla decisione della Suprema Corte sopra esaminata è stato, poi, l’ulteriore recente intervento della Corte Costituzionale con la importante sentenza n. 105 del 23/5/2018.
La Consulta, infatti, è stata investita nuovamente della questione proprio sul presupposto che, pur a seguito della dichiarazione di incostituzionalità degli articoli 70 e 72 del D. Lgs. 151/2001, in concreto, nella mancanza del richiesto intervento legislativo, non poteva essere riconosciuto, in favore dei padri adottivi, liberi professionisti, il diritto alla percezione dell’indennità di maternità in alternativa alla madre e, proprio in ragione di tale presupposto, il Giudice a quo aveva sollecitato una nuova pronuncia della Corte, che potesse consentire l’adozione della decisione sulla specifica vicenda sottoposta al suo giudizio.
La Corte Costituzionale, proseguendo su un sentiero interpretativo analogo a quello percorso dalla stessa Corte di Cassazione nella succitata sentenza 10282/2018, ha chiarito che: “L’esclusione del diritto all’indennità di maternità al padre adottivo o affidatario che esercita una libera professione rappresenta un vulnus sia del principio di parità di trattamento tra le figure genitoriali e fra lavoratori autonomi e dipendenti, sia del valore della protezione della famiglia e della tutela del minore, contraddicendo la ratio degli istituti a tutela della maternità, che non hanno più, come in passato, il fine precipuo ed esclusivo di protezione della donna, ma sono destinati alla difesa del preminente interesse del bambino”, precisando, altresì, che “le dichiarazioni di illegittimità costituzionale corredate dall’addizione di un principio enunciato in maniera puntuale e, quindi, suscettibile di diretta applicazione, impongono di ricercare all’interno del sistema la soluzione più corretta anche quando la sentenza ne ha rimesso l’attuazione al legislatore”, precisando, altresì, come sia “dovere del giudice del merito fondare la propria decisione sul principio già enunciato che è incardinato nell’ordinamento quale regola di diritto positivo, ancor prima che il legislatore intervenga per dare ad esso piena attuazione”.
Sul punto, appare interessante riportare, in stralcio, parte delle motivazioni della Consulta, che restano, a parere di chi scrive, illuminanti al fine di una comprensione della questione, anche in relazione alle applicazioni pratiche della stessa: “La Corte rimettente prende le mosse dall’erroneo presupposto che, in difetto di un intervento del legislatore, il principio enunciato da questa Corte con la sentenza n. 385 del 2005 non dispieghi alcuna influenza sulla definizione della vicenda controversa. Al contrario, in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del d.lgs. n. 151 del 2001, riguardanti i liberi professionisti iscritti a enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza, la regola che preclude al padre adottivo il godimento dell’indennità di maternità, in posizione di parità con la madre, ha cessato di avere efficacia e non può più ricevere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (artt. 136 Cost. e 30 della legge 11 marzo 1953 n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale»). In continuità con la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 295 del 1991, punto 3. del Considerato in diritto), si deve affermare che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale corredate dall’addizione di un principio, enunciato in maniera puntuale e quindi suscettibile di diretta applicazione, impongono di ricercare all’interno del sistema la soluzione più corretta (sentenza n. 32 del 1999, punto 6. del Considerato in diritto), anche quando la sentenza ne ha rimesso l’attuazione al legislatore. È dovere del giudice, chiamato ad applicare la Costituzione e le sentenze che questa Corte adotta a garanzia della stessa, fondare la sua decisione sul principio enunciato, che è incardinato nell’ordinamento quale regola di diritto positivo, ancor prima che il legislatore intervenga per dare ad esso piena attuazione. In tale direzione, del resto, si è già orientato il diritto vivente, quando ha affermato che, nelle more dell’intervento legislativo, la norma applicabile, idonea a produrre effetti nell’ordinamento, è solo quella che si ispira al principio enunciato da questa Corte (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza del 25/1/2017, n. 1946). Nel caso in discussione, questa circostanza si è verificata in modo inequivocabile. Questa Corte non può dunque pronunciarsi una seconda volta, come richiede il giudice a quo, indotto dalla considerazione che non si possa altrimenti dirimere la controversia pendente (in termini analoghi, sentenza n. 295 del 1991, punto 3. del Considerato in diritto, ripresa dalla sentenza n. 74 del 1996, punto 2. del Considerato in diritto). Il principio di parità tra i genitori adottivi conforma, difatti, la disciplina dell’indennità di maternità, che oramai vive nell’ordinamento, innervata dal principio ordinatore che questa Corte ha introdotto, come peraltro affermato anche dalla Corte di cassazione in una pronuncia recente (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza del 27/4/2018, n. 10282). In conclusione, al principio, enunciato in maniera puntuale nei termini di una perfetta parità tra i genitori adottivi, il giudice dovrà dunque fare riferimento per individuare un criterio di giudizio della controversia che è chiamato a decidere”.
Certo, a ben vedere, l’excursus della Consulta sembrerebbe riconoscere, così come già sottolineato dal Prof. Figone nell’articolo innanzi citato, il diritto al riconoscimento, in favore del padre libero professionista, della indennità di maternità, in alternativa alla madre, solo in caso di filiazione adottiva e non biologica, lasciando sopravvivere, per ovvia conseguenza, nel sistema un vulnus fra padre adottivo e/o affidatario e padre biologico.
Alla luce delle ultime recenti pronunce, che sicuramente hanno offerto spunti per una migliore interpretazione della questione controversa, e, comunque, in attesa di una più puntuale regolamentazione della materia da parte del legislatore, la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, ha deciso di riconoscere agli iscritti, padri adottivi o affidatari, il diritto a percepire l’indennità di maternità, in alternativa alla madre, in conformità alle prescrizioni di cui al dettato normativo dell’art. 72 del D. Lgs. n. 151/2001, previa produzione di autocertificazione, da parte della madre, attestante l’attività lavorativa svolta, l’ente previdenziale di appartenenza, il mancato percepimento, per il medesimo evento, della detta indennità, con contestuale rinuncia alla presentazione della relativa domanda.
È, allora, evidente come il percorso legislativo e giurisprudenziale che si è cercato di ripercorrere, da un lato, ha posto in risalto come gli istituti nati a salvaguardia della maternità non abbiano più, oggi come un tempo, il fine unico di protezione della donna (madre), atteso che gli stessi restano precipuamente destinati alla difesa dell’interesse del bambino “che va tutelato non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente fisiologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della sua personalità”. Ed è per questo che, come più volte sottolineato dalle pronunce innanzi richiamate, non riconoscere l’eventuale diritto del padre all’indennità di maternità (meglio, genitoriale) costituirebbe un ostacolo alla presenza di entrambe le figure genitoriali.
Per questo occorre garantire “un’effettiva parità di trattamento fra i genitori nel preminente interesse del minore” e ciò non potrà che avvenire ammettendo anche il padre (indipendentemente dalla sua natura di padre biologico o adottivo e/o affidatario) ad usufruire dell’indennità di cui all’art. 70 del D. Lgs. n. 151/2001, in alternativa alla madre; questo varrà anche in caso di nuclei familiari ove questi esercita una libera professione, nel rispetto del principio di uguaglianza.
D’altro lato, però, quello stesso percorso legislativo e giurisprudenziale ha lasciato le “nostre” iniziali domande orfane di univoche risposte, atteso che sul terreno sono rimaste ancora diverse questioni che meritano concrete riflessioni e coerenti soluzioni, anche a livello interpretativo, che, ove mancanti, contribuirebbero a nutrire quel vulnus nella disciplina sapientemente sottolineato dalla Consulta nelle sue pronunce in materia.
L’immediato futuro non mancherà certamente di dire quale sarà il contributo che il legislatore riterrà di offrire sia alla disciplina della stessa indennità in questione (disciplinandone la permanenza nell’ordinamento, i presupposti normativi e i beneficiari), sia alla possibilità di chiarire quei profili essenziali dell’istituto evidenziati dalla Corte Costituzionale; purtuttavia, al contempo, non può trascurarsi come il principio di diritto da seguire sia stato chiaramente tracciato dalla Consulta, unitamente alla esatta individuazione dei diritti da tutelare, e, conseguentemente, non si può (e non si deve) lasciare che quel “mancato intervento del legislatore”, più volte invocato in materia nella quotidianità processuale, continui ad integrare i contorni di un comodo alibi per non offrire una adeguata tutela a quel nucleo di diritti pur individuato in maniera indelebile dalla Corte Costituzionale nelle pronunce richiamate.
* Avvocato. ISP Bari