di Gianluca Aresta
“Mandiamo i bamboccioni fuori di casa”…è un vecchio adagio mai sopito, quanto mai attuale nel nostro Paese, che la Suprema Corte di Cassazione, con una recentissima ordinanza, sembra aver voluto rispolverare con argomentazioni che rappresentano l’espressione di una tendenza (nuova) in linea con l’evoluzione dei tempi e con la sempre più evidente necessità di dare un nuovo assetto ai rapporti familiari. Ma facciamo un piccolo passo indietro nel tempo.
Era l’anno 2007 quando l’allora Ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, in un’audizione davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, sdoganò ad alto livello il termine “bamboccioni” per indicare una generazione di giovani, a suo dire, sin troppo pigra e quasi patologicamente legata alla famiglia di origine e per esortarli ad “uscire di casa”.
Sono passati tredici anni e sembra che, nel frattempo, poco sia cambiato, almeno a giudicare dai più recenti dati diffusi da Eurostat, l’istituto di statistica continentale che, in occasione della giornata internazionale della gioventù del 12/8/2019, ha messo in evidenza, proprio con riferimento all’anno 2019, come la metà delle persone di età compresa tra i 25 e i 34 anni si trovano ancora con i genitori: il 49,2 % di loro, per la precisione!
Un dato ben oltre la media europea (30,5 %) e assai più elevato degli indici scandinavi. In Danimarca (3,2 %), Finlandia (5,4 %) e Svezia (6,4 %) una volta compiuti i 25 anni i figli se ne vanno. Ma in Italia restano! (da: “Italiani bamboccioni d’Europa: via da casa non prima dei 30 anni e vale solo per la metà dei figli”, di Renato Giannetti, del 12 agosto 2020, su eunews l’Europa come non l’avete mai letta).
L’Istituto di statistica europeo ha messo in risalto le diverse abitudini dei popoli europei: i nordici i più indipendenti, i mediterranei quelli che se la prendono più comoda! Questioni culturali, ma non solo. L’abbandono del nucleo familiare, rileva Eurostat, “è spesso influenzato dal fatto che i giovani abbiano o meno una relazione con il partner o studino, dal loro livello di indipendenza finanziaria, dalle condizioni del mercato del lavoro, dall’accessibilità economica degli alloggi”.
Sono diversi i fattori che spingono i figli a “rimanere a casa”, però dai dati pubblicati sembrano potersi ricavare alcune tendenze generali. Se, come detto, in Scandinavia e nei Paesi Bassi si tende ad abbandonare il “nido” molto presto, d’altro lato negli Stati membri meridionali dell’UE i giovani si trasferiscono intorno ai 30 anni, fermandosi più a lungo in famiglia. Così i giovani adulti in Croazia e Slovacchia lasciano la casa in media rispettivamente all’età di 31,8 e 30,9 anni. Seguono i giovani adulti d’Italia (30,1 anni) e Bulgaria (30,0 anni), quindi quelli di Malta (29,9 anni), Spagna (29,5 anni), Portogallo (29,0 anni) e Grecia (28,9 anni).
Sono soprattutto i maschi a rimanere a casa. In quasi tutti gli Stati membri dell’UE, infatti, le giovani donne tendono a lasciare la famiglia dei genitori prima degli uomini; unica eccezione il Lussemburgo (20,3 anni per le donne, rispetto a 20 anni per gli uomini). Insomma, i “bamboccioni” non sono scomparsi, a dispetto del fatto che sono in aumento i ragazzi che, nel Bel Paese, dal sud si trasferiscono al nord alla ricerca di nuove opportunità.
A fronte di questa endemica pigrizia nazionale ci sarebbe anche un altro dato preoccupante: sempre secondo Eurostat (su Ait Europa, “Eurostat, Italia si conferma penultima in Ue per laureati”, Agenzia ANSA, 22/4/2020), l’Italia si è confermata penultima nell’Unione Europea per numero di laureati: solo un cittadino su sei prosegue gli studi. Tra i giovani fra i 30 e i 34 anni solo il 27,6 % ha completato gli studi universitari (contro il 40,3 % della media UE): a giudicare da questa fotografia i giovani non vogliono cambiare città, ma neanche passare il tempo sui libri.
Ebbene, è in questo panorama che la Suprema Corte di Cassazione irrompe a gamba tesa e, con la ordinanza n. 17183 del 14/8/2020, sembra affermare: “Addio bamboccioni”!
Vero è che il concetto di famiglia in Italia è rimasto immutato per secoli, a differenza di ciò che avviene nei Paesi del Nord Europa, ed è sempre apparsa “normale” la tradizionale famiglia numerosa, quella dei nostri nonni o bisnonni, con i figli che, sposati, restavano spesso sotto lo stesso tetto dei genitori per lungo tempo. Ma il mondo è cambiato e, forse, anche l’Italia deve finalmente prenderne consapevolezza. Il mercato del lavoro richiede oggi una capacità di spostamento, iniziativa e autonomia che la vecchia civiltà prevalentemente contadina non prevedeva.
E, allora, la Corte di Cassazione, con una brusca inversione di tendenza rispetto al passato – quando “mantenere” il figlio maggiorenne costituiva un dovere in ogni caso – ha prepotentemente affermato l’obbligo del figlio di attivarsi, raggiunta la maggiore età o terminato il percorso di studi, secondo il principio di “autodeterminazione”, per cercare un lavoro “qualunque”, al fine di rendersi autonomo, anche in attesa di un impiego più aderente alle sue aspirazioni, richiedendo espressamente al “figlio adulto” uno spirito di adattamento alle disponibilità occupazionali del mercato.
Il figlio maggiorenne, secondo quel principio di autoresponsabilità fortemente affermato dalla Suprema Corte nell’ordinanza in esame, è tenuto ad attivarsi per assicurarsi il sostentamento autonomo in attesa di un impiego più consono alle sue aspirazioni: diversamente “pretendere l’assegno” costituirebbe un abuso del diritto. Questo, però, con la precisazione di alcune situazioni di tutela, precisamente individuate, che giustificano il permanere di un obbligo di mantenimento nei confronti del figlio maggiorenne non autosufficiente, ossia: una peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali; la prosecuzione degli studi ultraliceali in modo proficuo, da cui si desuma un iter ancora in corso di svolgimento finalizzato alla realizzazione delle proprie aspirazioni ed attitudini, dimostrando effettivo impegno ed adeguati risultati; l’essere trascorso un lasso di tempo breve dopo il conseguimento del titolo di studio durante il quale il figlio si sia adoperato nella ricerca di un lavoro; la mancanza di un qualsiasi lavoro dopo avere effettuato (e dimostrato) tutti i tentativi di ricerca.
In assenza della prova di una delle predette fattispecie, raggiunta la maggiore età, si presumono l’idoneità lavorativa e la responsabilità del figlio e il venir meno del suo diritto al mantenimento ulteriore. Finiti gli studi, afferma la Suprema Corte, siano quelli liceali, la laurea triennale o quella specialistica, un figlio ha il dovere di trovare un’occupazione e rendersi autonomo.
I Giudici di legittimità hanno, così, nel caso specifico, respinto il ricorso di una donna che contestava la decisione della Corte d’Appello di revocare l’assegnazione della casa coniugale e l’assegno che l’ex marito aveva versato per anni al figlio, un ragazzo di circa 30 anni di professione insegnante di musica (precario) con un guadagno di circa 20 mila euro all’anno come supplente. Secondo i Giudici spettava al ragazzo (o dovremmo finalmente dire uomo?) “ridurre le proprie ambizioni adolescenziali”: bello e fondamentale poter seguire le proprie aspirazioni, studiare ciò che si ama, ma, a un certo punto, si deve anche “fare i conti con la realtà pratica e poter pagare le bollette”. Senza coltivare velleità incompatibili con il mutato mercato del lavoro: perché l’assegno di mantenimento, afferma la Corte di Cassazione, ha “una funzione educativa e non è un’assicurazione”.
Sembra evidente che i Giudici di legittimità, con la pronuncia in questione, richiedano un deciso cambio di passo, per passare dal principio del “diritto ad ogni possibile diritto” al concetto di dovere, dall’assistenzialismo all’autoresponsabilità del “figlio adulto”, quasi imposta dalla evoluzione del nostro contesto sociale.
I Giudici di legittimità, del resto, nell’ambito di un excursus argomentativo apprezzabile per la rigorosa coerenza e per la dovizia di riferimenti giurisprudenziali, non escludono il diritto all’assegno di mantenimento solo nelle ipotesi in cui la famiglia non versi in floride condizioni economiche. Anche i genitori agiati e benestanti, infatti, possono (o meglio, devono) chiudere i cordoni della borsa quando il figlio abbia compiuto la maggiore età e terminato il suo corso di studi: “se è brillante e vuole proseguire può puntare ad una borsa di studio o darsi da fare per arrotondare il magro bilancio”. I Giudici di legittimità sottolineano, infatti, che, nel percorso interpretativo della problematica in questione, nessun rilievo ha la situazione economico patrimoniale del genitore, posto che il diritto ed il corrispondente obbligo si basano sulla situazione del figlio e non sulle capacità economiche dell’obbligato.
Continuare a mantenere i figli conviventi “sedicenti” non autonomi – sottolinea la Suprema Corte – integrerebbe anche una disparità di trattamento, ingiustificata e ingiustificabile, nei confronti dei figli coetanei che si sono resi autonomi perdendo poi tale condizione: solo per i primi permarrebbe, infatti, un obbligo di mantenimento, mentre i secondi potrebbero vantare solo un diritto agli alimenti. Tutele del tutto attenuate, dunque, per chi si trascina stancamente negli studi per nulla proficui o nella ricerca di un lavoro: “Il concetto di capacità lavorativa – si legge nella ordinanza – intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro, in particolare un lavoro remunerato, si acquista con la maggiore età”.
Nessuno può nascondere il fatto che per i giovani di oggi uscire di casa sia molto più difficile di un tempo: tra contratti precari e stipendi al limite della sussistenza, il sogno di una casa di proprietà, così raggiungibile, seppur con sacrifici, per i loro genitori, ora è diventato per molti una lontanissima chimera. Tuttavia, secondo la Cassazione, la maggiore età si associa alla capacità di adattarsi a svolgere un lavoro che renda autonomi. E se i tempi si allungano con la laurea, magari andando un po’ fuori corso, la Suprema Corte ha voluto esplicitamente menzionare il divieto di “abuso di diritto”: insomma i figli non possono approfittarne, magari pure in “mala fede”.
Non bisogna dimenticare che già in un’altra recente sentenza (Cass. Civ., Sez. I, n. 3659 del 13/2/2020), la Corte di Cassazione aveva chiarito che: “Devono essere restituite all’ex coniuge le somme versate da questi per il mantenimento dei figli, nell’ipotesi in cui questi ultimi erano già economicamente autosufficienti”. E, allora, attenzione perché il rischio è, poi, non solo quello di perdere “l’assegno di papà”, ma anche di doverlo lautamente rimborsare!
L’obbligo di mantenimento legale della prole cessa, dunque, con la maggiore età del figlio in concomitanza all’acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione; in seguito ad essa, l’obbligo sussiste laddove stabilito dal Giudice ed è onere del richiedente provare non solo la mancanza di indipendenza economica – che è la precondizione del diritto preteso – ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro. Pertanto, nel caso specifico che ha originato la pronuncia della Corte di Cassazione, il figlio maggiorenne che da tempo ha concluso gli studi e lavora come “insegnante precario” è doverosamente tenuto a trovare il modo di auto mantenersi. Il provvedimento, in proposito, sottolinea che integra un preciso dovere del figlio la ricerca comunque dell’autosufficienza economica, impegnandosi proficuamente per incrementare le supplenze o integrare le proprie entrate con qualsivoglia opportunità di lavoro.
L’ordinanza in esame si occupa della problematica relativa alla definizione dei confini del diritto al mantenimento della prole maggiorenne e dello speculare obbligo a carico del genitore alla luce del principio di autoresponsabilità e ne esamina le conseguenze in tema di onere probatorio.
Da un punto di vista squisitamente processuale, la Suprema Corte sottolinea come il Giudice dovrà valutare, caso per caso, la eventuale sussistenza di quelle “circostanze” di cui all’art. 337 septies, comma 1, cod. civ. – rubricato “Disposizioni in favore dei figli maggiorenni” – che potrebbero giustificare il permanere dell’obbligo genitoriale di mantenimento dei figli maggiorenni, conviventi o no con i genitori o con uno di essi. Il primo comma dell’art. 337 septies cod. civ. testualmente recita: «Il Giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del Giudice, è versato direttamente all’avente diritto».
I Giudici di legittimità si sono soffermati sugli elementi costitutivi della norma suindicata. Uno di questi è quello indeterminato e rappresenta la precondizione del diritto all’assegno di mantenimento per il figlio e del corrispondente obbligo in capo al genitore, ossia lo status di figlio “non indipendente economicamente”. La Suprema Corte ha precisato che tale valutazione deve essere ancorata al percorso scolastico, universitario e post universitario del soggetto e alla situazione del mercato del lavoro nel settore prescelto; deve essere condotta con rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all’età dei beneficiari, in modo da escludere che tale obbligo si protragga oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, risolvendosi in forme che la Suprema Corte definisce, con incisiva terminologia, di “parassitismo di ex giovani” ai danni dei loro genitori sempre più anziani.
La Corte di Cassazione precisa che “il diritto del figlio si giustifica all’interno e nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso formativo, tenendo conto delle sue capacità, inclinazioni ed aspirazioni” e che, conseguentemente, “la funzione educativa del mantenimento è nozione idonea a circoscrivere la portata dell’obbligo di mantenimento, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per il suo inserimento nella società”. Tuttavia tale obbligo a carico del genitore, secondo la Suprema Corte, non può protrarsi sine die, giacché esso “non può essere correlato esclusivamente al mancato rinvenimento di un’occupazione del tutto coerente con il percorso di studi o di conseguimento di competenze professionali o tecniche prescelto”.
Un altro passaggio chiave della ordinanza che merita di essere sottolineato è quello in cui la Corte di Cassazione individua l’età al raggiungimento della quale cessa l’obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni, precisando che tale obbligo si estingue con l’acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione, le quali, così come la capacità lavorativa, si conseguono al raggiungimento della maggiore età, quando si presume che sia stata raggiunta, appunto, l’autonomia, salva la prova, posta ineludibilmente a carico del richiedente, delle condizioni che potrebbero giustificare, al contrario, il permanere di tale obbligo. È posto in rilievo, dunque, il concetto di dovere di autoresponsabilità e non solo quelli di “diritto ad ogni possibile diritto” e di assistenzialismo incondizionato, che hanno, invece, ispirato e fondato l’orientamento giurisprudenziale più recente.
La Corte è tornata ad occuparsi dei presupposti e dei limiti del diritto al mantenimento dei figli maggiorenni, giungendo – come si è detto – a conclusioni assolutamente contrastanti e dirompenti rispetto ai precedenti (anche più recenti) indirizzi interpretativi, lasciando emergere un nuovo modo di intendere il rapporto tra genitori e figli in termini di diritti e di obblighi, il cui filo conduttore, “in linea con il mutamento dei tempi”, sottolineano i Giudici di legittimità, è il richiamo del figlio a quel dovere di autoresponsabilità che si contrappone al diritto ad un assistenzialismo incondizionato.
Ora, mentre l’obbligo di mantenimento in capo al genitore sussiste indubbiamente nei confronti dei figli minori – insieme agli altri diritti doveri verso la prole, cioè quelli di istruzione, educazione e assistenza morale – quanto ai figli maggiorenni tale obbligo non è automatico e non dipende, allora, solo e semplicemente dalla mancanza di indipendenza economica. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, il vero elemento discretivo del dettato normativo dell’art. 337 septies, comma 1, cod. civ., si riferisce all’uso del verbo “può”, che, escludendo appunto ogni automatismo, rimette al prudente apprezzamento del Giudice ed alla sua discrezionalità, la valutazione fattuale per fondare o meno il riconoscimento della sussistenza di presupposti per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento in favore del “figlio adulto”.
La norma, in realtà, non offre alcun riferimento temporale predeterminato al quale ancorare l’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne. Fino alla pronuncia in commento, invero, la giurisprudenza di legittimità era consolidata nel ritenere che l’obbligo del genitore al mantenimento della prole dovesse perdurare oltre la maggiore età, fino a quando il genitore non avesse provato il raggiungimento della indipendenza economica ovvero l’inerzia e la negligenza del figlio o il suo rifiuto ingiustificato di svolgimento di un’attività lavorativa. Sul punto, peraltro, merita di essere ricordato l’indirizzo giurisprudenziale a tenore del quale, conformemente alle statistiche ufficiali, nazionali ed europee, superata la soglia dei 34 anni, lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non può più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento.
Adesso, invece, in maniera del tutto innovativa, la Corte di Cassazione sembra individuare (anzi, forse, è meglio dire che individua), nell’ordinanza che stiamo commentando, nel conseguimento della capacità di agire e della capacità lavorativa al raggiungimento della maggiore età, il momento in cui cessa l’obbligo genitoriale di mantenimento della prole. Stante la correlazione, secondo la pronuncia in commento, tra funzione educativo-formativa ed obbligo di mantenimento, tale obbligo non può che essere connesso alla “concreta condotta di impegno nella personale formazione, o, dove terminata, nella ricerca di un impiego”. Ciò che i Giudici di legittimità “chiedono” al “figlio adulto” è che, dopo avere efficacemente concluso il percorso di studi, lo stesso si attivi per cercare un’occupazione e rendersi economicamente autosufficiente, secondo il principio di autoresponsabilità, contemperando le ambizioni personali con le condizioni concrete del mercato del lavoro.
Tutto questo determina rilevanti conseguenze sul piano dell’onere probatorio ed è questo indubbiamente l’aspetto processuale più innovativo della pronuncia, la quale evidenzia che, con il raggiungimento della maggiore età, si verifica una presunzione di idoneità al reddito e, dunque, di autonomia, spostando, così, l’onere probatorio sul richiedente “figlio adulto”, con una impostazione che si discosta radicalmente dai precedenti indirizzi giurisprudenziali che gravavano, invece, il genitore obbligato dell’incombente peso di tale onere, per quanto smussato dalla possibilità di ricorso alle presunzioni. Tale situazione potrebbe essere vinta dal figlio maggiorenne asseritamente non autosufficiente solamente dimostrando la sussistenza di quelle circostanze che abbiamo analiticamente sopra riportato, che giustificherebbero, al contrario, il permanere del diritto di essere mantenuto.
L’onere della prova a carico del “figlio adulto” viene graduato in relazione all’età del richiedente; infatti, secondo l’ordinanza, la prova sarà tanto più lieve quanto più prossima sia l’età del richiedente a quella di un recente maggiorenne, e più gravosa man mano che l’età aumenti, “sino a configurare il figlio adulto, in ragione del principio di autoresponsabilità, con riguardo alle scelte di vita fino a quel momento operate ed all’impegno profuso, nella ricerca, prima, di una sufficiente qualificazione professionale e, poi, di una collocazione lavorativa».
In mancanza di prova delle condizioni tipizzate che giustificano il permanere di un obbligo di mantenimento, va da sé che il “figlio adulto” deve cominciare a prendere consapevolezza di non averne più diritto, anzi, come viene sottolineato dall’ordinanza, “… può essere ritenuto egli stesso inadempiente all’obbligo, posto a suo carico dall’art. 315 bis, comma 4, cod. civ., di contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finchè convive con essa”.
Nella ordinanza in questione non può non cogliersi, allora, una manifesta inflessibilità nei confronti della “prole indolente”, la cui posizione non trova tutela qualora si traduca in condotte di abuso del diritto, che si risolvono in quelle forme di “parassitismo dei figli ai danni dei genitori sempre più anziani”, come testualmente sottolineato dai Giudici di legittimità.
Quell’inveterato profilo assistenzialista, quell’atteggiamento protezionistico che, da sempre, nel nostro Paese, hanno ispirato il rapporto genitori-figli, sembrano cedere il passo con decisione ad una posizione più pragmatica, forse più moderna, dove il “figlio adulto”, sul quale grava l’onere di dimostrare di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, dovrà attivarsi per trovare un’occupazione, in una prospettiva che sia realistica, ridimensionando, se necessario, le proprie legittime aspirazioni, allorquando le opportunità offerte dal mercato del lavoro non siano pienamente corrispondenti ai propri sogni.
Recitando testualmente quanto scritto nell’ordinanza che si commenta: “Ciò conferma come, quando siano di rilievo i concetti del dovere e dell’autoresponsabilità – e non solo quelli del “diritto ad ogni possibile diritto” e dell’assistenzialismo – anche il nostro ordinamento giuridico proceda di pari passo con l’evoluzione della società civile, pur corroborando tali principi con l’applicazione razionale e perdurante del principio di solidarietà ex art. 2 Cost.”.
L’impressione di chi scrive è che la Corte Cassazione ci abbia voluto severamente ricordare, con l’ordinanza in esame, che l’Italia ha bisogno di una seria rivoluzione anche all’interno delle mura domestiche. Ma mai come questa volta è altrettanto forte e dirompente la sensazione che l’orientamento della giurisprudenza sia arrivato una falcata prima di quella “evoluzione della società civile” richiamata espressamente proprio dagli stessi Giudici della Suprema Corte. Mai come questa volta la giurisprudenza sembra essere stata, più che una interprete delle esigenze di cambiamento sociale, una saggia ed attenta suggeritrice di un quanto mai necessario ripensamento di un vivere sociale evidentemente, da sempre, restio al cambiamento.
* Avvocato. ISP Bari