di Maurizio Quilici*
I recenti, frequenti episodi di violenza minorile – bullismo, stupri di gruppo (con gli orrendi fatti di Palermo e Caivano), risse collettive, vandalismo… – chiamano in causa amaramente il ruolo dei genitori e quello, in particolare, del padre. Spesso alla violenza giovanile si associa una gratuita crudeltà, come nel caso del diciottene di Fiuggi che ha ucciso a calci una capretta, o la totale incomprensione del significato delle proprie azioni, come è stato per lo youtuber di Roma che ha ucciso un bambino guidando a velocità folle in città.
Psicologia e psicoanalisi assegnano al padre la funzione essenziale di dettare le regole, impersonare la legge, porre limiti alla tendenziale assenza di autocontrollo dell’adolescenza. E se oggi ruoli e funzioni paterni e materni si sono fatti, giustamente, più elastici e intercambiabili, al padre – per motivi storici, psicologici e persino fisici – continua a spettare il compito di indicare la strada, non già facilitando il percorso e sgomberandolo da ogni frustrazione ma segnalando gli ostacoli, indicando i mezzi e le strategie per superarli, le risorse per affrontare le inevitabili delusioni. Questo ineliminabile compito non è una facoltà, è un dovere insito nell’essere genitore. Dovere che fortunatamente non viene più esercitato con l’autoritarismo di un tempo (quando non con la violenza fisica) ma che deve continuare ad essere perseguito con la necessaria fermezza.
Psicologia, sociologia, criminologia hanno abbondantemente sottolineato, negli ultimi 70 anni, lo stretto rapporto fra controllo paterno e comportamenti asociali o addirittura criminosi. Una letteratura sterminata dalla quale mi limiterò ad attingere alcune osservazioni di Donald Winnicott, famoso pediatra e psicoanalista britannico i cui studi furono a lungo incentrati esclusivamente sull’importanza della figura materna, salvo riconoscere in seguito anche al padre una importanza non solo “indiretta”, ossia funzionale alla tranquillità della madre. Winnicott (Il bambino, la famiglia e il mondo esterno, RCS-Corriere della Sera 2012) osserva dunque che il bambino, e più tardi l’adolescente, che mostra comportamenti antisociali è un bambino che “non ha avuto la possibilità di introiettare alcun limite”. Nella sua infanzia il bambino ha bisogno di “verificare la propria capacità di distruggere, spaventare, logorare, sprecare, ingannare e appropriarsi di oggetti che non gli appartengono”. Il suo scopo? Quello di mettere alla prova i genitori: una sorta di “test” dettato dalla componente distruttiva del bambino, dalla sua instabilità, dalla sua incapacità di controllare gli istinti.
In mancanza di un ambiente stabile in famiglia (cosa che gli sarebbe assolutamente necessaria), il bambino/adolescente cercherà rassicurazioni all’esterno: nonni, zii, insegnanti, vicini di casa. E coetanei. Una soluzione, quest’ultima, assai importante ma non sempre felice per i comprensibili rischi che il gruppo comporta. “Quando un bambino ruba lo zucchero dalla credenza della cucina” – scrive Winnicott – “è alla ricerca della propria madre”. Ma il bambino (ecco l’importante ripensamento dello psicoanalista, che propone per il padre non più solo funzioni “indirette”) va alla ricerca anche del padre. Afferma Winnicott: “Il bambino antisociale ha un disperato bisogno di una figura paterna capace di imporre con fermezza delle regole e di proteggere la madre”.
Il tema è vastissimo: potrebbe avere inizio con Freud e la formazione del Super-Io, il “guardiano” che si forma dopo la fase edipica, attraverso l’interiorizzazione delle figure genitoriali e di quella paterna in particolare, e arrivare fino alle più recenti teorie sul maltrattamento infantile, l’interazione geni-ambiente, la resilienza (a sua volta ipoteticamente legata anche al metabolismo degli ormoni steroidi). Neurobiologia (si veda la scoperta dei “neuroni specchio” con le relative applicazioni e prospettive), psicologia e psicoanalisi, sociologia e criminologia collaborano da tempo per individuare gli interventi preventivi di sostegno ai genitori in quella delicatissima fase dello sviluppo che è la prima infanzia. Tutto converge e concorda e può riassumersi in una frase di Paul Federn, medico e psicoanalista allievo di Freud (che lo nominò vice-presidente della Società Psicoanalitica di Vienna) contenuta in una illuminante conferenza del 1919 il cui testo è stato di recente e per la prima volta pubblicato in Italia (La società senza padre, artstudiopaparo, 2016): “Ciò che conta davvero è la posizione del bambino in rapporto al padre. E’ questa la base di ogni rispetto per l’autorità”.
Tornando allo sconcerto iniziale e alle strategie di intervento, è chiaro che i fattori ai quali si possono imputare comportamenti di violenza giovanile come quelli citati all’inizio sono numerosissimi: vanno da quelli sociali ed economici (ambienti degradati socialmente, spesso in condizioni di povertà che facilitano il ricorso a strade facili per ottenere denaro; ma anche strati sociali benestanti e annoiati, e si ricordi l’atroce violenza dei ragazzi-bene del Circeo, che nel 1975 rapirono, stuprarono, torturarono e uccisero) a quelli culturali (l’abbandono scolastico, specie al Sud, pone l’Italia al quintultimo posto fra i 28 membri dell’Unione Europea, secondo dati ISTAT del 2015), a quelli genetici, a quelli individuali (non c’è un rapporto di causa-effetto fra condizioni di vita e comportamenti antisociali) a quelli professionali (l’assenza di opportunità lavorative). Aggiungiamo altri ingredienti quali l’educazione a uno sfrenato consumismo (le interminabili file di giovani in attesa per ore, fin dalla notte, per acquistare l’ultimo modello di sneakers o di cellulare ne sono la sconcertante manifestazione), la povertà diseducativa di molti programmi “di intrattenimento” televisivi, la facilità di accesso a video pornografici, i contenuti violenti – termine certamente molto ampio, polisemico, figlio di un ipotetico istinto di aggressività biologicamente innato – o sessisti di videogiochi, film, pubblicità (delle due scuole di pensiero: riprodurre virtualmente la violenza costituisce una valvola di sfogo o invece induce ad assuefarsi alla violenza come “gioco”, con conseguente confusione fra gioco e realtà, io propendo per la seconda), la diffusione tra i giovanissimi di droga e alcool… Il cocktail è pronto! A Caivano – ha raccontato don Maurizio Patriciello, parroco del rione – ci sono bambini di 11 anni che guadagnano 100 euro al giorno con lo spaccio di stupefacenti. Bambini, osserva giustamente, “già bruciati”.
La ministra per la famiglia, Eugenia Roccella, ha puntato il dito sui video porno (“li guardano anche i bambini”) e ha sostenuto il “ruolo centrale” della scuola. E per una volta sono d’accordo con lei. Grande agenzia educativa, la scuola. Lì si dovrebbe imparare una materia obbligatoria e fondamentale: il rispetto degli altri. Ma gli sforzi di tanti eroici insegnanti naufragano contro un modesto trattamento economico e una generale svalutazione (che ne è in parte la conseguenza) a livello sociale. La tacita solidarietà e collaborazione docente-genitore di un tempo ha lasciato il posto ad una aggressività e mancanza di rispetto che dai genitori si riverbera sugli allievi, con effetti disastrosi per la dignità e l’autorevolezza del corpo insegnante.
E’ chiaro che la famiglia e la scuola – agenzia educative primarie – sono in testa alle possibili soluzioni. Della scuola qualcosa si è detto; quanto alla famiglia, essa è impossibilitata a svolgere la sua funzione quando i suoi membri sono essi stessi “corrotti” e si trasforma da elemento di protezione in fattore di distruzione: comportamenti delinquenziali del padre o dei fratelli sono tra i fattori di rischio “cronici”, maltrattamenti e abusi fra quelli “acuti”. Il filosofo Stefano Zecchi ha scritto che “a un figlio non servono tante chiacchiere per essere educato: l’esempio, la coerenza del comportamento del padre sono sempre decisivi, sono l’ultima parola di una sentenza” (Dopo l’infinito, cosa c’è, papà?, Mondadori 2012). Giusto: l’esempio rimane il miglior strumento educativo (potente strumento nell’infanzia), ma quale esempio può derivare da un padre che, poniamo, delinque? O che è totalmente assente o inadeguato? O che è alcolizzato, o che picchia la sua compagna? Esempio, sì, ma negativo.
Non c’è bisogno che il padre abbia comportamenti criminali; è sufficiente la sua inadeguatezza, la sua assenza, la sua immaturità per produrre una generazione di giovani in cui – come osserva la psicoanalista Simona Argentieri – c’è “uno squilibrio tra le funzioni cognitive – acute e vivaci – e quelle emotive – invece assai fragili”. Per Argentieri “ci avviamo a vivere in una società di eterni adolescenti, senza adulti attrezzati a prendersi responsabilità, a esercitare la funzione di proteggere e punire, a costruire argini esterni ed interni alla violenza, sia essa un istinto o un dato comportamentale. Forse dovremmo preoccuparci più dei genitori che dei figli”. (Violenza e ambiguità: alla ricerca delle emozioni perdute, in Monica Repetto e Carlo Tagliabue (a cura di), Il silenzio degli innocenti, Lindau 2003). Sono passati 20 anni esatti da quello scritto e la previsione, temo, si è avverata.
La famiglia, quindi, necessita essa stessa di aiuto, e di questo dovrebbe farsi carico lo Stato – con ben altro impegno – attuando interventi rieducativi e di prevenzione. Più di 70 anni fa John Bowlby – medico, psicologo e psicoanalista britannico, autore della fondamentale “Teoria dell’attaccamento” – scrisse qualcosa che mantiene intatta la sua validità: “Come i bambini dipendono completamente dai propri genitori per la loro sussistenza, così, in tutte le società, tranne le più primitive, i genitori, soprattutto le madri, dipendono dalla soietà. Se una società s’interessa ai propri bambini, deve prendersi cura anche dei propri genitori”. (Cure materne e salute mentale del bambino, Giunti 1951).
E dunque? Non c’è speranza di fronte al ripetersi di questi episodi di brutalità e violenza, ai quali segue più spesso il vanto che la consapevolezza e il pentimento? Il pensiero torna ai padri, al loro importante ruolo educativo (oggi a fianco delle madri) e alla domanda che inevitabile sorge spontanea parafrasando la famosa frase di Giovenale. Quis custodiet ipsos custodes? si chiedeva il poeta. Ovvero: chi custodirà i custodi stessi? E noi possiamo chiederci: chi educherà gli educatori, in primo luogo i padri?
* Presidente dell’I.S.P.