di Gianluca Aresta *
Con il seguente articolo ha inizio una nuova Rubrica di carattere giuridico. Curato dall’Avv. Gianluca Aresta, del Foro di Bari, questo spazio ospiterà ogni volta il commento ad una legge, sentenza o ordinanza, oppure l’esame dei risvolti legali di un fatto di cronaca o di un comportamento sociale… Saranno sempre, naturalmente, episodi legati alla paternità, alla genitorialità, ai minori. L’avv. Aresta, sposato e padre di due bambini, si occupa da anni di Diritto di Famiglia con una particolare attenzione al profilo della paternità, motivo per il quale è divenuto socio del nostro Istituto. Il titolo della Rubrica, “Diritto… e rovescio”, allude al fatto che una norma, o una sentenza, hanno sempre più risvolti che si aprono alla riflessione; ed anche al fatto che essa intende osservare – nello spirito e nello stile che caratterizzano questo Istituto – un atteggiamento non polemico ma, appunto, riflessivo e, ove necessario, utilmente critico.
Recentemente ha destato vasta eco e particolare curiosità la decisione della Corte d’Appello di Bologna – riportata dalla Gazzetta di Modena – che ha respinto la domanda di disconoscimento di paternità formulata da un uomo il quale riteneva, con il pieno conforto delle risultanze processuali del giudizio di secondo grado, che i due gemelli dati alla luce dalla moglie, da cui da tempo si era separato, non fossero figli suoi.
Gli accertamenti del DNA, disposti soltanto nel corso del giudizio di appello, escludevano, solo nell’aprile del 2016, il rapporto di filiazione: non era lui il padre naturale dei ragazzi!
Eppure per la Corte d’Appello di Bologna quell’uomo deve continuare ad essere considerato il “padre legale” di due bambini che non sono suoi e continuare a versare il mantenimento per gli stessi. Perché?
La questione, come detto, ha suscitato grande enfasi, anche mediatica, per le riflessioni che ha stimolato, sia da un punto di vista giuridico, sia da un punto di vista umano.
Proviamo, allora, a fare qualche considerazione, con l’intenzione di cercare di dare qualche risposta e con la speranza di non generare altre mille domande.
Da un lato, la questione deve essere affrontata dal punto di vista dei due gemelli minori, la cui tutela, anche economica, sembra prevalere (o meglio, prevale), nel nostro sistema normativo, sui diritti dell’uomo.
Invero, in materia la legge fissa alcuni paletti molto chiari che proviamo a riassumere: a) il figlio nato dalla madre sposata si presume sempre che sia figlio del marito; c’è un “automatismo” (che non opera nel caso dei conviventi di fatto) che vale anche per i figli nati entro trecento giorni dopo l’udienza di separazione (consensuale o giudiziale); b) la madre può disconoscere la paternità entro sei mesi dalla nascita o da quando scopre l’impotenza del marito; c) il padre può farlo entro un anno dalla scoperta del tradimento o dell’impotenza. In nessun caso, però, la domanda può essere depositata dopo che il figlio ha compiuto i cinque anni.
In questo quadro, da quanto è dato capire da come la notizia è stata riportata dagli organi di stampa, il marito ha formulato la domanda giudiziale tesa al disconoscimento dei due gemelli già decorso un anno da quando (nell’anno 2009) aveva avuto certezza del tradimento.
Sarebbe, quindi, “arrivato” tardi e la sua istanza giudiziale di disconoscimento è stata respinta in quanto tardiva, anche in considerazione del fatto, aggiungono i Giudici della Corte d’Appello di Bologna, che la richiesta dell’uomo era in contrasto con l’interesse, anche materiale, dei due gemelli minori.
I Giudici della Corte d’Appello di Bologna hanno ritenuto che il fatto che l’uomo non fosse il padre dei gemelli, a livello di filiazione, non potesse implicare «automaticamente la domanda di disconoscimento della paternità». Il motivo? «L’interesse superiore del minore deve essere accertato in concreto dal Giudice».
E, nel caso in esame, il giudice dell’Appello riteneva che «nonostante sia stata dedotta dall’appellante l’assenza di un forte legame affettivo coi minori, quel che è certo è che il provvedimento richiesto li priverebbe di una delle due persone tenute al loro mantenimento con un conseguente pregiudizio economico per i minori. In questo senso l’interesse superiore del minore appare al momento contrario alla proposta di disconoscimento».
Per quanto la sentenza in questione sia apparsa da subito criticabile e, per certi versi, “inaccettabile”, in realtà la stessa, da un punto di vista squisitamente processuale, resta solo apparentemente ingiusta (seppur definita, da taluni interpreti, “…la reale, un poco sconcertante, conclusione dell’italica giustizia”), atteso che la statuizione riposa sul decorso del termine ex lege previsto per la proposizione della azione di disconoscimento di paternità; come innanzi detto, l’uomo sarebbe “arrivato tardi”.
La vicenda in esame offre, però, la possibilità di soffermarsi a riflettere su una problematica (ossia, la prevalenza del favor minoris sul favor veritatis, o viceversa) ancora oggi apertamente dibattuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza dei Giudici di merito e di legittimità, che, in realtà, ha originato le critiche più aspre alla sentenza dei Giudici della Corte d’Appello di Bologna.
La Suprema Corte, nel tempo, già aveva avuto modo di pronunciarsi sul tema, chiarendo che: “In tema di disconoscimento di paternità, il quadro normativo (artt. 30 Cost., 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali della UE e 244 cod. civ.) e giurisprudenziale attuale non comporta la prevalenza del ‘favor veritatis’ sul ‘favor minoris’, ma impone un bilanciamento fra il diritto all’identità personale legato all’affermazione della verità biologica – anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – e l’interesse alla certezza degli ‘status’ ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all’identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica, ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne. Tale bilanciamento non può costituire il risultato di una valutazione astratta, occorrendo, invece, un accertamento in concreto dell’interesse superiore del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale. …” (in termini, Cassazione Civile, Sez. I, del 22/12/2016, n. 26767), statuendo pertanto il principio della prevalenza del favor minoris sul favor veritatis.
In pratica, la stessa Suprema Corte aveva ritenuto errato ridurre la questione al mero dato biologico, senza operare una contestuale valutazione dell’interesse del minore. Il favor minoris, deve prevalere, a dire di questo orientamento dei Giudici di legittimità, anche sulla verità della procreazione, che non rappresenterebbe “un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi comunque”.
In questo caso, la Corte Suprema interpreta il comma IV, dell’art. 30 della Cost. in maniera assolutamente diversa (ed antitetica!) da quanto fatto con la (di poco) successiva pronuncia n. 4020/2017, ritenendo che al Legislatore ordinario sia demandato “il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella biologica, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione, in via generale, della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio”.
L’equiparazione tra figli matrimoniali e figli “naturali”, e l’oggettivo minor valore “sociale” oggi attribuito allo status legale a fronte della verità biologica, non escludono che, allorchè venga chiesta la rimozione dello status originariamente acquisito, l’interesse del minore rivesta importanza fondamentale e predominante.
Ciò che occorre bilanciare, allora, sembrerebbe essere la verità biologica con l’interesse del figlio alla stabilità familiare: il favor veritatis va integrato con valutazioni, relative al figlio, inerenti il contesto in cui questi è inserito.
In altre parole, si tratterebbe di valutare, caso per caso, se davvero corrisponde all’interesse del minore perdere il legame genitoriale già esistente e se ciò corrisponda realmente alla salvaguardia della sua identità personale.
Questo assunto, del resto, trova indiretta conferma nel dettato normativo di cui all’art. 244 cod. civ. che prevede la decadenza dopo cinque anni dalla nascita del figlio per l’esercizio dell’azione di disconoscimento da parte della madre o del padre legale. Si presume, in pratica, che decorso un certo arco temporale, il figlio abbia acquisito una propria identità, il cui mutamento potrebbe recargli pregiudizio. In tal caso, la verità biologica è destinata a soccombere.
È la valutazione che hanno compiuto realmente, nel caso di specie, i Giudici della Corte d’Appello di Bologna? Ma non sarebbe stato opportuno valutare seriamente il legame affettivo (già molto fragile, così come emerso nel corso del giudizio) fra il padre legale e i gemelli minori, unitamente al contesto familiare in cui erano inseriti, al fine di identificare intimamente quale potesse essere l’interesse preminente del minore?
Nel solco del dibattito sul tema, si pone, con imponente rilevanza, la ancor più recente statuizione n. 4020 del 15/2/2017 della Suprema Corte, che, in aperto contrasto con la pronuncia innanzi richiamata, chiarisce che: “L’interesse del minore infraquattordicenne alla proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità è delibato esclusivamente dal provvedimento di nomina del curatore speciale, non anche nel giudizio di merito da quest’ultimo introdotto, attesa la rilevanza dell’accertamento della verità biologica e, quindi, del legame genetico genitoriale anche sotto il profilo del diritto, costituzionalmente tutelato, all’identità personale” (nella specie, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva accolto l’azione di disconoscimento, oltretutto evidenziando l’interesse del minore alla conoscenza della verità, nonostante la positiva relazione con il marito della madre, di cui la c.t.u. genetica aveva però escluso la paternità)”.
Ebbene, con tale pronuncia la Suprema Corte affermava la supremazia della verità biologica su quella legale, concludendo per la prevalenza del favor veritatis, che, tuttavia, non si porrebbe in conflitto con il favor minoris poiché, all’opposto, “la verità biologica della procreazione costituisce una componente essenziale dell’interesse del minore medesimo, traducendosi nell’esigenza di garanzia del diritto alla propria identità e segnatamente all’affermazione di un rapporto di filiazione veridico”.
L’art. 30 della Carta Costituzionale, nei comma 3 e 4, andrebbe interpretato, secondo tale orientamento dei Giudici di legittimità, anche alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale e dell’impianto normativo attuale (introdotto con L. n. 219/2012 e D. Lgs. 154/2013), che ha attuato il superamento definitivo di quella impostazione che attribuiva preminenza al favor legitimitatis, mediante l’equiparazione tra la filiazione naturale e quella legittima (Corte Cost. n. 170/1999).
Secondo questo ultimo indirizzo interpretativo della Suprema Corte, il principio della verità biologica prevale, almeno potenzialmente, in quanto espressione di quel diritto fondamentale all’identità personale che si esplica anche attraverso la ricerca della propria origine biologica.
La sentenza in commento stimola certamente alcuni interessanti spunti di riflessione sull’argomento: la Corte sostanzialmente afferma che il favor veritatis sarebbe coerente con il favor minoris, perché la verità biologica della procreazione rappresenta una componente fondamentale dell’interesse del minore, che si esplica nell’esigenza di garantire al minore il diritto alla propria identità e all’affermazione di un rapporto di filiazione veridica. Nei fatti è così?
Non solo: le azioni di stato sono tutte imprescrittibili riguardo al figlio, che quindi è arbitro del proprio destino, potendo decidere in qualsiasi momento se cambiare il proprio stato giuridico, una volta divenuto adulto, o, viceversa, conservarlo. Spetta esclusivamente a lui, quindi, compiere un bilanciamento, del tutto personale, tra i diversi interessi, quello alla verità biologica, ma anche quello a mantenere lo stato non veridico, al fine di conservare rapporti sociali e affettivi già consolidati.
Le due pronunce esaminate si pongono in evidente e stridente contrasto fra di loro sotto molteplici aspetti e la macroscopica discrasia a livello interpretativo è tanto più evidente se si considera che entrambe fondano la rispettiva tesi sui principi affermati dalla Corte Costituzionale, con sentenza additiva n. 429/1991, che ha dichiarato infondata la questione di legittimità dell’art. 244 cod. civ., in relazione agli artt. 30, comma 3 e 4, Cost. “poiché, quando l’azione di disconoscimento di paternità del minore di sedici anni è proposta su istanza del Pubblico Ministero, la valutazione dell’interesse del minore all’esperimento dell’azione è affidata al Giudice”.
Sembrerebbe, allora, che su questo punto – così come sulla questione dell’accertamento della verità biologica se espressione di un interesse costituzionale sempre prevalente rispetto ad altri interessi potenzialmente in contrasto, come, appunto, quello del figlio minore a non veder modificato lo status allorchè ciò sia contrario al suo interesse – non possa prescindersi da un auspicabile intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.
La pronuncia della Corte d’Appello di Bologna ha sicuramente suscitato interessanti dibattiti, ma il panorama giurisprudenziale enucleatosi in materia offre una fotografia assolutamente incerta, poco rassicurante e sfocata nei suoi contorni più importanti.
Quali conclusioni allora?
Emerge con disarmante evidenza, a dispetto del riportato contrasto giurisprudenziale ancora vivo sull’argomento, che il “best interests of the child” rappresenta il principio informatore di tutta la normativa a tutela del fanciullo, garantendo che in tutte le decisioni che lo riguardano il Giudice debba tenere in considerazione proprio il “superiore interesse del minore”. Così come appare, di pari evidenza, che anche le statuizioni giurisdizionali sono ormai orientate e finalizzate a promuovere e salvaguardare il benessere psicofisico del bambino e a privilegiare l’assetto di interessi più favorevole a una sua crescita e maturazione equilibrata e sana.
Per ovvia conseguenza, i diritti degli adulti “cedono” dinanzi ai diritti del fanciullo, con l’ulteriore conseguenza che essi stessi trovano tutela solo nel caso in cui questa coincida con la protezione del bambino.
Così come lucidamente sostenuto dall’Avv. Nadia Di Lorenzo nel suo articolo Il principio del superiore interesse del minore nel sistema di protezione del fanciullo all’interno delle relazioni famigliari , “Si potrebbe dire che i diritti degli adulti, nel settore famigliare, acquistino una portata ‘funzionale’ alla protezione del bambino, soggetto debole della relazione e pertanto bisognoso di maggiore tutela”.
In tal senso, allora, acquistano preminente rilevanza, proprio accanto a quello del preminente interesse del fanciullo, principi diversi quali quello, fra gli altri, del diritto alla bigenitorialità. Così prosegue Nadia Di Lorenzo: “…il superiore interesse del minore può essere considerato un principio generale all’interno del sistema giuridico di tutela del fanciullo, che fonda in maniera autonoma decisioni giurisdizionali originali e nuove, nella prospettiva secondo cui nella protezione dei suoi diritti fondamentali non trovano ingresso meccanismi stereotipati e automatici, quanto soluzioni ragionate case by case, avendo presente la cura del ‘best interests’ non del minore quale soggetto generale del diritto, ma del singolo fanciullo destinatario finale del provvedimento giurisdizionale”.
Ma il dubbio alla fine resta! È davvero interesse preminente del minore, come statuito dalla Corte d’Appello di Bologna, la garanzia di un mantenimento economico in luogo di una relazione affettiva stabile e sincera?
E, come nel caso di specie, è davvero “giusto” costringere un uomo a mantenere dei figli non suoi solo perché altrimenti “verrebbe meno uno dei due soggetti tenuti al mantenimento”? Chi sarebbero i “soggetti tenuti al mantenimento” dei due piccoli gemelli? L’inutile decorso di un “freddo” termine processuale, previsto da un impianto normativo a pena di decadenza per l’esercizio della azione di disconoscimento, può “costringere” un uomo a dover mantenere due figli non suoi frutto di un tradimento della moglie accertato nei fatti? E quel soggetto davvero tenuto (moralmente e giuridicamente) al mantenimento di quei due bambini non sarebbe il padre naturale degli stessi?
Obiettivamente ha sorpreso non poco il “disinteresse” processuale dei Giudici della Corte d’Appello nei confronti di quel “padre naturale” che avrebbe dovuto farsi carico di quella “responsabilità genitoriale” che, anche nel suo profilo economico patrimoniale, è stata invece riversata in via esclusiva sull’uomo protagonista della nostra “storia”. Certamente sarebbe stata quanto meno opportuna la partecipazione al giudizio, seppur stimolata dai Giudici con un provvedimento d’ufficio, di quel padre naturale che, tecnicamente parlando, non può non considerarsi un “litisconsorte necessario” nella vicenda processuale in esame.
E semmai, sia consentito chiederci, il protagonista della vicenda avesse proposto la azione di disconoscimento nei termini ex lege previsti, quale sarebbe stata la “risposta giudiziale” dei Giudici della Corte d’Appello? Ritengo che sarebbe stata la medesima che stiamo commentando, perché avrebbe prevalso – ancora – quell’interesse superiore del minore che resta, a tutt’oggi, un principio il cui significato è ancora fisiologicamente ancorato a valutazioni ermeneutiche soggettive e strettamente collegate al contesto storico di riferimento.
Un principio che deve essere sicuramente riempito, caso per caso e in relazione alla specificità della singola controversia, di significato, al fine di trovare la soluzione che meglio possa soddisfare non un minore stereotipo, ma “quel” minore protagonista (magari involontario) di quel processo.
Non era, allora, forse, quella in esame, una occasione in cui la verità biologica avrebbe potuto (o dovuto) prevalere sull’interesse del minore…magari proprio perché il caso non rimanesse, nell’immaginario collettivo, come un esempio di “…sconcertante conclusione dell’italica giustizia”?
Si è da più parti sottolineato che l’uomo potrebbe, in ipotesi, pensare di agire (ove non lo abbia già fatto!) nei confronti della ex moglie, per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa del comportamento ingannevole assunto dalla stessa durante il matrimonio; ma a quali parametri dovrebbe essere ancorato per essere davvero un “giusto” risarcimento?
Senza dimenticare che, al contempo, comunque l’uomo sarebbe costretto a pagare l’assegno di mantenimento per i due figli non suoi, con una importante deminutio proprio di quel risarcimento che, se del caso, gli potrebbe essere riconosciuto!
A parere di chi scrive, nella vicenda in questione la forma ha sicuramente prevalso sulla sostanza.
Una sola importante certezza sembra potersi affermare: quei due piccoli gemelli non avranno mai la certezza di una relazione intima e affettiva stabile e significativa con entrambi i genitori, atteso che il padre naturale, al momento, è “sconosciuto” e il padre legale, con cui non intrattengono un profondo legame affettivo (per quanto emerso nel processo), è relegato ex officio al ruolo di “soggetto tenuto al mantenimento”. Forse il superiore interesse di quei bambini aveva un profilo ben diverso da quello disegnato alquanto forzatamente dalla Corte d’Appello di Bologna.
* Avvocato. ISP Bari