di Maurizio Quilici *
Ci sono sentenze che investono più di un aspetto e si esprimono su più argomenti. Una di queste è certamente la sentenza di Cassazione n. 16410 emessa il 30 luglio 2020, che affronta due temi di grande importanza: il rapporto nonni-nipoti nella separazione e nell’affidamento e l’ascolto del minore. Anzi, essa tocca e chiarisce – ribadendo posizioni già espresse – un terzo punto: la nozione di “parte” riferita ad un minore nel processo.
Vediamola dunque più da vicino questa sentenza così… densa. Tutto nasce dalla richiesta di due nonni che si rivolgono al Tribunale per i minorenni dell’Aquila chiedendo di poter incontrare la nipote di nove anni, “collocata” (attenuo l’orribile termine apponendo le virgolette) presso la madre durante il giudizio di separazione dei genitori della bambina. I giudici, però, respingono il ricorso, ritenendo i nonni privi di adeguate capacità di gestione del rapporto con la nipote. Il Tribunale giunge a questa convinzione per la situazione di aspro conflitto che c’è fra i nonni e la nuora e la “aperta denigrazione” dei primi verso la seconda. Oltretutto, i suddetti nonni si erano rifiutati di intraprendere un percorso di riavvicinamento alla nipote con incontri dapprima protetti. Insomma, l’atteggiamento dei nonni viene ritenuto “pregiudizievole per l’equilibrata crescita psicologica della bambina” (tutte le citazioni, anche se riferite al Tribunale e, in seguito, alla Corte d’Appello, sono tratte dalla sentenza della Cassazione).
I nonni non si arrendono e – mentre nel procedimento interviene anche il padre della bambina, aderendo alle tesi dei genitori – impugnano il decreto, eccependo fra l’altro (questo il punto che ci interessa) la nullità per la mancata audizione della minore.
Anche in appello, però, i giudici danno torto ai ricorrenti e rigettano il reclamo. Per quanto attiene al punto che ci sta a cuore, ossia la mancata audizione della minore, i giudici di appello sostengono la insussistenza della nullità “essendosi trattato di soggetto di appena nove anni e non apparendo comunque l’audizione necessaria una volta appurato che il divieto di incontri s’era basato sulla mancanza di adeguate capacità educative e affettive in capo ai nonni, e sull’atteggiamento dei medesimi, pregiudizievole per l’equilibrata crescita psicologica della bambina”.
E siamo all’ultimo atto, ovvero al ricorso per Cassazione da parte dei nonni (inevitabile chiedersi – a parte le immaginabili sofferenze per tutti gli attori di questa vicenda – quanto tempo sarà trascorso fra la prima istanza e il definitivo giudizio). Un ricorso affidato a tre motivi, dei quali prenderemo in esame solo il primo, quello che riguarda la mancata audizione della bambina. I ricorrenti sostengono la violazione dell’art. 336 c.c. e dell’art. 102 c.p.c. “in quanto non era stata assicurata la partecipazione della minore al giudizio rappresentata da un difensore, e in quanto comunque non si era provveduto alla di lei audizione a causa dell’età”.
Proprio quel primo motivo – osservano i giudici della Suprema Corte – merita particolare attenzione, poiché “intercetta il tema della posizione che nel procedimento deve essere attribuita al minore” (ovvero, come vedremo fra un attimo, se e come il minore possa considerarsi “parte” nel giudizio). In linea generale essi rammentano come nell’ordinamento esista “un vero e proprio diritto degli ascendenti a instaurare e mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni”, a cui corrisponde “uno speculare diritto del minore”. Come è noto tale diritto – assieme alla possibilità di ricorrere al giudice (il Tribunale per i minorenni) in caso di impedimento – è stato introdotto dall’art. 42 del Decreto Legislativo 28 dicembre 2013 n. 154 (“Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione”). Questo articolo ha profondamente riformato l’art. 317-bis c.c., superando l’indirizzo dettato fino a quel momento dalla Legge 54/2006 sull’affido condiviso, per la quale (art. 1) era il figlio minore ad avere un diritto a “conservare rapporti significativi con gli ascendenti”, mentre non era riconosciuto alcun diritto in capo ai nonni. Dopodiché i giudici fanno riferimento all’art. 366 c.c., commi 2 e 4, secondo cui il minore deve essere ascoltato se ultradodicenne (o anche infradodicenne “ove capace di discernimento”) ma deve essere anche assistito da un difensore.
A questo punto i giudici della Suprema Corte affrontano un argomento collaterale, quello della (eventuale) posizione di “parte” del minore nel procedimento che lo riguarda. E lo fanno con lunghe e articolate disquisizioni, che qui cercherò naturalmente di sintetizzare giungendo rapidamente alle conclusioni.
Due gli indirizzi giurisprudenziali, uno restrittivo e l’altro estensivo. Il primo tende a negare al minore la posizione di “parte” in senso proprio e fa notare – fra l’altro – che la difesa tecnica “è solo eventuale ed è rimessa alla libera scelta delle parti”; il secondo, invece, vorrebbe considerare sempre il minore come “parte” sostanziale e non formale del giudizio che lo riguarda, in base al fatto che nei giudizi riguardanti provvedimenti limitativi, ablativi o restitutivi della responsabilità genitoriale riguardanti entrambi i genitori è richiesta la nomina di un curatore speciale, laddove non sia stato nominato un tutore provvisorio, sussistendo un conflitto di interessi verso entrambi i genitori. Ad avvalorare l’assunto del minore come “parte” sostanziale, il fatto che in mancanza di nomina del curatore speciale “il procedimento deve ritenersi nullo ex art. 354 c.p.c., comma 1, con rimessione della causa al primo giudice perché provveda all’integrazione del contraddittorio” (Cass. n. 5256/18).
Nonostante questa ultima sentenza citata provenga dallo stesso organo giudicante, i supremi giudici del caso di specie non condividono il secondo indirizzo, che ritengono “incentrato su una lettura estrema della sentenza n. 1 del 2002 della Corte Costituzionale”. Qui i rimandi si fanno numerosi. Diciamo soltanto che la Corte Costituzionale con quella sentenza intese configurare per il minore capace di discernimento la necessità del contraddittorio, in quanto appunto “parte” del procedimento che lo riguarda. Senonché, per i giudici di Cassazione la modalità di gestione di questo contraddittorio è stata lasciata libera, come si deduce dalla stessa formulazione impiegata: “se del caso previa nomina di un curatore speciale” (corsivo mio). E pertanto il riferimento al “contraddittorio” “non può essere formalizzato come elemento di validità formale del giudizio”. Di più: gli stessi giudici ricordano che in un’altra sentenza anteriore (n. 185/1986) la Corte Costituzionale ha escluso che sia “costituzionalmente illegittima l’omessa previsione della nomina di un curatore speciale per la rappresentanza in giudizio dei figli minori”.
Per concludere, i giudici che hanno emesso la sentenza in questione ritengono che il concetto di “parte” nel processo, riferito al minore “si concretizza e si esprime non nella necessità di una partecipazione formale (implicata dalla nozione di parte in senso proprio), ma nel diritto del minore di essere ascoltato ai fini del merito, in quanto parte sostanziale: soggetto portatore di interessi diversi (quando non in certi casi anche contrapposti) da quelle dei genitori”. Insomma, i minori possono qualificarsi “parti”, ma “lo sono però solo in senso sostanziale”. Essi “non possono considerarsi parti vere e proprie (formali) del procedimento finché la legittimazione processuale non sia loro attribuita da una specifica disposizione di legge” (così come il decreto che abbiamo citato sopra ha dato legittimità processuale ai nonni).
Tornando al caso di specie, i giudici hanno sentenziato che “il mancato ascolto non determina alcuna nullità (procedimentale) (…); determina invece la possibilità di impugnare nel merito la decisione finale” in quanto è stata omessa la valutazione delle opinioni del minore. Il mancato ascolto che non sia motivato – hanno osservato – costituisce violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del minore”. Inoltre, hanno censurato sia la giustificazione del mancato ascolto sulla base della età della minore sia quella che l’ascolto non era necessario per l’accertata mancanza di adeguate capacità educative e affettive dei nonni. Infatti, “la sottolineata età della minore non implica necessariamente l’incapacità di discernimento” e l’apodittico giudizio sulla capacità educativa e affettiva dei noni “non giustifica il rifiuto di ascolto della minore”. La Corte quindi ha rinviato la causa alla stessa Corte d’Appello dell’Aquila.
Non so se sono riuscito a sintetizzare – e soprattutto a semplificare – una sentenza piuttosto articolata, ricca di rinvii e riferimenti. Mi è parsa interessante sia per la disquisizione sul concetto di minore come “parte” che sulla vexata quaestio dell’ascolto del minore, due temi ovviamente correlati. Interessante mi è sembrato anche quanto i giudici hanno deciso nel caso di specie.
Un’ultima notazione, visto che si parla di nonni. Nel 2020 un altro provvedimento della Cassazione li ha riguardati. E’ l’ordinanza n. 9144 depositata il 19 maggio 2020 che ha riconosciuto anche al nonno cosiddetto “sociale” (la persona legata all’ascendente del minore da un rapporto di coniugio o di convivenza) lo stesso diritto riconosciuto dall’art. 317-bis c.c. al nonno biologico. Anche questa particolarmente interessante; infatti il Tribunale per i minorenni di Roma aveva respinto il ricorso di una nonna “sociale” che chiedeva di mantenere rapporti significativi con le nipoti nonostante gli ostacoli frapposti dai genitori, dichiarandone il difetto di legittimazione. Infatti per l’art. 317-bis, tante volte citato in questo articolo, legittimati all’azione sono esclusivamente gli ascendenti, cioè le persone legate da un vincolo di parentela. Anche questa è una sentenza abbastanza articolata (il ricorso riguardava anche una restrizione del diritto di visita nei confronti dei nonni perché giudicati troppo “invadenti”) ma a me interessa qui rilevare il principio di diritto ribadito dalla Cassazione, che si rifà espressamente ad una precedente sentenza (Cass. civ. n. 19780/2018): “…il diritto degli ascendenti (…) non va riconosciuto ai soli soggetti legati al minore da un rapporto di parentela in linea retta ascendente, ma anche ad ogni altra persona che affianchi il nonno biologico del minore, sia esso il coniuge o il convivente di fatto, e che si sia dimostrato idoneo ad instaurare con il minore medesimo una relazione affettiva stabile, dalla quale quest’ultimo possa trarre un beneficio sul piano della formazione e del suo equilibri psicofisico”.
In questo caso mi pare che l’interpretazione estensiva dei giudici, che certamente forza e supera la lettera della legge, non possa che valutarsi positivamente: essa risponde infatti a quella nuova sensibilità che giustamente attribuisce valore ai rapporti affettivi (si parla sempre più spesso di paternità e maternità “affettive”) e li tutela come e più dei vincoli di sangue. Del resto, è considerazione ovvia che si possa essere ottimi padri o madri (o nonni) anche senza un rapporto biologico e pessimi genitori (o nonni) naturali. E dunque, un principio che mi fa doppiamente piacere, sia perché rispecchia una nuova e più ricca concezione dei rapporti umani, sia perché io stesso sono insieme un nonno biologico e un nonno “sociale” e do pari risalto ai due ruoli.
Il principio enunciato risponde anche alla nuova concezione di famiglia che si è fatta strada in questi ultimi anni: non solo genitori e figli uniti da un legame biologico (o al più adottivo) ed eventualmente giuridico, ma qualsiasi formazione sociale caratterizzata da legami affettivi, comuni responsabilità, mutua assistenza. Una linea sulla quale la giurisprudenza di merito è ormai concorde e che trova autorevoli sponde in pronunce della Cassazione (per esempio Cass. civ. n. 19599/2016), della Corte Costituzionale (n. 162/2014) e di numerosi organi sovranazionali quali l’ONU e la Corte EDU.
* Presidente dell’ISP