di Gianluca Aresta *
Louise Brown, nata nel 1978. Forse ai più sconosciuta. Così come Thomas Beatie. Eppure la loro esistenza, probabilmente silenziosa, ma non certo anonima, merita di essere raccontata perché sicuramente ha lasciato un segno.
In un momento storico in cui, forse, si va realizzando l’ambìto sogno della scienza di sostituirsi ai processi naturali, in cui la possibilità di portare avanti una gravidanza fuori dal corpo della donna e il progetto dell’utero artificiale non sembrano più “obiettivi” impossibili, la “storia” di queste due persone ha tracciato un sentiero che oggi, in maniera più attuale che mai, lascia sul tavolo innumerevoli spunti di riflessione. Louise Brown è stata la prima neonata concepita con la fecondazione in vitro, fuori dal corpo della madre: sicuramente questa prima nascita ha rappresentato l’inizio di una nuova era nel settore della medicina e della procreazione; per la prima volta, infatti, si è avuto a disposizione un mezzo, non solo terapeutico, capace di porre rimedio alla intima “frustrazione” delle coppie che dovevano confrontarsi con l’infertilità; un evento storico che ha lasciato dietro di sé una scia di questioni giuridiche ancora oggi senza una soluzione univoca.
Tecniche come l’inseminazione artificiale o la fecondazione in vitro sono nate con l’obiettivo di curare la sterilità, ma, in realtà, non ripristinando nessuna funzione fisiologica, si sono poste, nel tempo, in una sorta di atteggiamento competitivo con la procreazione naturale, causando un vero e proprio cambiamento del modello procreativo e un’autentica rivoluzione simbolica e culturale, attraverso la affermazione di significativi cambiamenti in tutti i molteplici settori legati alla procreazione umana: dai mutamenti di carattere medico-biologico a quelli in ambito sociale. La modificazione dello scenario della procreazione è data dal fatto che le nuove tecnologie riproduttive, come la fecondazione in vitro, agiscono spostando la fecondazione e trasferendo l’embrione fuori dal corpo della donna, fino ad invalidare la necessità primordiale delle relazioni eterosessuali, spostando, così, l’atto procreativo dalla sfera privata al laboratorio e all’ospedale: l’atto procreativo si dissocia da quello sessuale e la genitorialità biologica dalla filiazione. Ecco il vero problema!
Le nuove tecnologie riproduttive sono il palcoscenico in cui i cambiamenti nei rapporti di genere trovano la loro rappresentazione più esplicita: le attuali possibilità di avere un figlio senza un padre identificabile, di poterlo concepire al di fuori dell’utero materno e di poterne stabilire le “qualità”, grazie alla diagnosi prenatale, hanno completamente invaso il campo della maternità e della paternità. “Da sempre siamo abituati a basarci su un modello di genere che identifica le donne con la maternità e gli uomini con la paternità. Il genere, almeno nella società occidentale, è stato costruito sui presupposti della potenzialità dei ruoli di cura materni e paterni. Essere donna significa non solo avere un corpo femminile, ma il poter diventare madre, mentre per l’uomo è il poter essere padre a definire la sua identità di genere” (Federica Marcozzi, in “In maschile e la paternità nelle nuove tecniche riproduttive”, La Camera Blu, Rivista del Dottorato di Studi di Genere dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Anno 2008, Numero 4).
Gli interventi biomedici influenzano ormai tutti i campi della nostra quotidianità, trasformano la nascita e modificano le nozioni di madre e padre, di maschile e femminile: la società si trova, quindi, costretta a dover forzatamente ripensare quale sia la base della parentela e dei rapporti di genere; siamo stati costretti a rivalutare il concetto di genere, in ragione della influenza che queste tecnologie riproduttive hanno sui ruoli convenzionali della famiglia e delle relazioni di parentela, mettendo in crisi i tradizionali ruoli genitoriali e causando il diffuso disagio della paternità, messa in crisi dal fatto che, nell’atto del concepimento, viene meno l’intervento attivo del maschio. È lo stesso concetto di parentela ad essere messo in crisi, attesa la difficoltà di continuare a pensare che questo possa fondarsi (solo) su basi biogenetiche.
Nel nostro ordinamento la tecnica della procreazione medicalmente assistita è espressamente vietata dall’art. 12, comma 6, della L. n. 40 del 19/2/2004, che, oltre a un espresso divieto, prevede anche una sanzione penale per il caso di trasgressione, rinvenendo la ratio legis nella tutela dell’unitarietà della figura materna e della dignità umana. In assenza di una definizione legislativa della surrogazione di maternità, nel divieto ricadono “sia le ipotesi in cui una donna metta a disposizione l’utero per ricevere un altrui ovocita fecondato, sia l’ipotesi in cui metta a disposizione l’utero e l’ovocita, impegnandosi in entrambi i casi a cedere il concepito subito dopo il parto”.
La “maternità per sostituzione” è una nuova tecnica di procreazione medicalmente assistita, per mezzo della quale le donne si prestano a vivere una gravidanza non per sé, ma per terzi soggetti, che diverranno poi gli effettivi genitori del nascituro. Nel più ampio concetto di maternità surrogata trovano applicazione differenti ipotesi di procreazione, che hanno in comune solo il carattere della surrogazione. La tradizionale surrogazione, definita “totale” o “omologa”, si verifica quando il patrimonio genetico del concepito è il medesimo di entrambi i genitori donatori, avendo la “madre surrogata” solo il compito di portare a termine la gravidanza.
Una diversa esplicazione della tecnica di surrogazione è la c.d. surrogazione “parziale” o “eterologa”, che si verifica allorquando si faccia ricorso alla donazione di ovociti in combinazione con la gravidanza nell’interesse della committente, ossia viene fecondato un ovocita della “madre surrogata” con il seme dell’uomo della coppia committente oppure nel caso in cui una donna diversa dalla “madre sociale” e dalla “madre gestazionale” fornisce l’ovocita, avendosi in tal modo un caso di “maternità trina”; costituisce, poi, mera fecondazione eterologa il caso di donazione di ovuli, perché in tale circostanza mancherà l’elemento della gravidanza portata avanti per conto altrui.
Alla luce di quanto espresso si è, quindi, affermato che la maternità surrogata si colloca “all’interno del fenomeno della procreazione medicalmente assistita, pur non costituendo di per sé alcuna tecnica: l’utilizzo delle tecniche procreative è infatti mezzo per realizzare le diverse forme di surrogazione”. Secondo tale definizione non sarebbe, quindi, possibile definire la surrogazione di maternità quale fenomeno unitario, in quanto si devono necessariamente distinguere le due figure di “surrogazione omologa” e “surrogazione eterologa”.
Appare evidente che le nuove tecnologie riproduttive rappresentano un pericolo per la paternità, in ragione della confusione, oggi particolarmente visibile, tra il dato biologico e quello sociale, ossia tra la paternità biologica e quella sociale, con un notevole ridimensionamento dell’importanza del dato biologico quale fondamento delle relazioni familiari: viene meno, così, il classico binomio uomo/padre, ossia il riconoscimento di un’identità basata solo sul fattore biologico.
In tale contesto di vorticosi cambiamenti sociali e biologici, ha fatto molto “rumore” il caso del transessuale Thomas Beatie (ecco l’altro nome da cui ha mosso i passi la curiosità, a dir poco preoccupata, di chi scrive), il primo “uomo incinto” al mondo ad aver partorito e ad essere nuovamente incinto grazie ad un donatore di sperma trovato in rete. Thomas Beatie, una donna alla nascita di nome Tracy Lehuanani LaGondino, avvocato per un’associazione che si occupa dei diritti riproduttivi della comunità transgender, oggi è un “uomo incinto”, un transessuale dell’Oregon che ha deciso di mantenere tutti gli organi femminili per la riproduzione e che, grazie alla banca del seme, ha potuto portare avanti una gravidanza da cui è nata una bambina; successivamente ha scelto di non rinunciare alla maternità ed ha partorito altri due figli avuti con la (ex) moglie Nancy; la gravidanza è avvenuta tramite un inseminazione artificiale fatta in casa, nella quale è stato fecondato un ovulo di Nancy; la gestazione invece, è avvenuta nell’utero di Thomas. Thomas sicuramente rappresenta un caso emblematico di assoluta fusione (o, forse, sarebbe meglio dire confusione!) di ruoli: lui è infatti, allo stesso tempo, madre e padre di sua figlia. È madre in termini biologici, mentre è padre in relazione al ruolo che “sente” di ricoprire all’interno del proprio nucleo familiare.
Per certi versi una storia sconvolgente, per altri versi una fotografia molto nitida del tempo che stiamo vivendo e dei profondi cambiamenti (o, meglio, stravolgimenti) a livello sociale, morale e, conseguentemente, giuridico che tutto ciò comporta, accompagnato da un vero e proprio stravolgimento dei ruoli e, dunque, dei presupposti circa la base dei rapporti di genere. Sono state messe in crisi tutte le tradizionali dinamiche padre/madre/figlio/a sulle quali ciascuno di noi ha sempre costruito, fin dall’infanzia, il proprio sistema di relazioni per poter interagire con il mondo e sulle quali si basa il rapporto eterosessuale.
Le nuove tecniche riproduttive hanno esaltato l’importanza dell’elemento biologico: quando si parla di procreazione ci si riferisce, infatti, sempre al materiale biologico e non ai due soggetti corporei che si incontrano nel desiderio di portare avanti un progetto comune, spostando, inevitabilmente, il centro del discorso dalla esclusiva considerazione della tradizionale filiazione solo per legame di sangue. In questo contesto rimane essenziale cercare di riformulare il concetto stesso di paternità, muovendo, forse, dall’idea che la nuova condizione di genitore non si possa più sviluppare solo all’interno della famiglia nucleare tradizionale (una coppia eterosessuale con dei figli), ma anche in contesti che accolgano altri “stili di vita” familiari. Il processo della definizione di una nuova paternità si sta dunque svelando sotto l’influenza di diversi fattori, tra i quali una diminuzione dell’influenza delle norme sociali sulla vita privata, l’accessibilità, anche se ancora non totale in alcuni paesi, alle tecnologie riproduttive, nonché un cambiamento di posizioni per quanto riguarda l’accettazione sociale delle relazioni omosessuali.
“Probabilmente, per una lettura maschile delle TRA (Tecniche di Riproduzione Assistita), ciò che è messo in crisi della paternità non è tanto la partecipazione diretta all’atto sessuale o l’apporto biologico del padre, quanto la dimensione dell’autorità e, dunque, lo sradicamento della vecchia condizione sociale. Per poter affrontare adeguatamente le relazioni richieste dai cambiamenti dovuti alle nuove tecniche riproduttive, è importante che il maschile cominci a dare voce al proprio desiderio per poter parlare di una nuova paternità; una paternità che dovrebbe essere forzatamente liberata dalla convinzione tradizionale di considerarla solo come un diritto. … Il maschile deve allora pensare ed interrogarsi sul generare e sulla propria paternità, in modo da poterla vivere entro le relazioni di genere, ripartendo dal proprio desiderio, imparando a considerare il proprio limite nel processo riproduttivo non come una mancanza, ma come una differenza positiva. È fondamentale che l’uomo partecipi all’esperienza del processo riproduttivo come padre consapevole, così da renderla uno spazio potenziale per nuove e differenti relazioni sociali tra uomini e donne” (Federica Marcozzi, in “In maschile e la paternità nelle nuove tecniche riproduttive”, La Camera Blu, Rivista del Dottorato di Studi di Genere dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Anno 2008, Numero 4).
A seguito della recente evoluzione scientifica e del travolgente mutamento degli usi e costumi sociali, ci si è dovuti porre il problema di come le nuove modalità di procreazione interferiscano con la determinazione del rapporto giuridico di filiazione, con particolare attenzione alle coppie omosessuali, risultando inadeguata, nonché, per certi profili, giuridicamente errata, l’applicazione delle disposizioni codicistiche, previste per la procreazione naturale, alle “nuove modalità” di procreazione.
Nel complesso e rivoluzionario panorama argomentativo innanzi descritto non può non ricordarsi la recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (n. 12193 del 8/5/2019, ormai conosciuta come la sentenza “dei due padri”), che ha statuito sul caso di una coppia di uomini, uniti in matrimonio contratto in Canada nel 2008 e produttivo di effetti nell’ordinamento italiano ai sensi della L. 76/2016, che presentava all’Ufficiale di Stato Civile italiano il provvedimento giudiziale canadese per il riconoscimento del rapporto di filiazione. In particolare, la coppia chiedeva che venisse riconosciuta la co-genitorialità del genitore non biologico e che venisse ordinata la trascrizione dell’atto di nascita da parte dell’Ufficiale di Stato Civile (i due uomini avevano scelto quello dei due che sarebbe stato il padre biologico e si erano accordati con una donna cui sarebbe stato immesso l’ovulo fecondato e avrebbe portato a termine la gravidanza).
La sentenza in esame ha affrontato, seppur in maniera non pienamente condivisa dalla maggior parte dei commentatori e destando non poche perplessità e critiche, la tematica della genitorialità sociale dal punto di vista delle nuove tecniche di filiazione e dell’incidenza che queste hanno sul panorama legislativo e collettivo. La Suprema Corte respingeva la domanda di riconoscimento del provvedimento giurisdizionale straniero con cui era stato accertato il rapporto di filiazione tra i minori nati all’estero, per mezzo di maternità surrogata, ed il genitore non biologico, di nazionalità italiana, “ostandovi il divieto di surrogazione di maternità di cui all’art. 12, L. 40/2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto della adozione”. Da questo punto di vista, autorevole è il commento di chi ha ritenuto che “riguardo alla genitorialità della coppia omosessuale, la presente sentenza costituisce una, seppur parziale, battuta d’arresto” (M. Dogliotti, in “Le Sezioni Unite condannano i due padri e assolvono le due madri”, in Famiglia e Diritto, n. 7/2019).
Il dilagare sempre più comune di nuove pratiche di procreazione medicalmente assistita ha ingenerato un intenso dibattito circa la compatibilità di queste con i diritti fondamentali della persona umana, generalmente tutelati dall’art. 2 della Carta Costituzionale. La Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, chiamata a pronunciarsi sul caso di specie, ha asserito, come innanzi detto, che il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma 6, della Legge n. 40 del 2004. La Corte ha considerato tali valori prevalenti sull’interesse del minore, sulla scorta di un bilanciamento operato dal Legislatore, cui la valutazione del Giudice non può sostituirsi, potendo tuttavia dare rilevanza al rapporto genitoriale mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, disciplinata dall’art. 44, comma 1, lett. d), L. 184/1983. Tale posizione trova fondamento in una pronuncia della Corte Costituzionale che, già nella sentenza n. 162/2014, si esprimeva sancendo la piena effettività del divieto di maternità surrogata. Giova, infatti, sottolineare come, nel nostro attuale ordinamento, la considerazione della diversa tecnica di procreazione adottata possa condizionare il bilanciamento di interessi e diritti, talvolta riconoscendo la natura della maternità nel vincolo genetico oppure privilegiando il ruolo sociale e il progetto di genitorialità.
Numerose sono state le pronunce antecedenti alla L. 40/2004, con le quali i giudici si sono espressi sulla natura del contratto di surrogazione materna, riscontrando, da un lato, una contrarietà all’ordine legislativo e, dall’altro, rilevando il fondamentale diritto a diventare genitore, ritenendo, in tal senso, lecito il contratto di surrogazione a titolo gratuito, proprio perché meritevoli gli interessi in gioco. Con l’entrata in vigore della L. 40/2004, introduttiva, come detto, del divieto generale di accesso alla pratica, si è assistito ad una virata in ordine all’oggetto delle controversie e allo spostamento del focus del Giudice dal contratto agli effetti che questo, stipulato in un Paese terzo, potesse avere nel proprio ordinamento.
Di assoluto rilievo, seppur non certo risolutiva, rimane, in materia, la decisione della Corte d’Appello di Bari del 13/2/2009, che fu chiamata a pronunciarsi sulla domanda di trascrizione nei registri dello Stato Civile italiano del c.d. parental order emesso dall’Autorità giudiziaria britannica nel 1998, con cui veniva attribuita alla committente la maternità di due figli, nati con le tecniche di surrogazione. A seguito del rifiuto del Comune Italiano al quale venne richiesta la trascrizione, la Corte d’Appello di Bari statuì l’esistenza dei requisiti di legge per il riconoscimento dell’atto, dichiarandone l’efficacia ai fini della trascrizione, non avendo riscontrato alcuna contrarietà con l’ordine pubblico internazionale e ritenendo, peraltro, prevalente l’aspetto della crescita e della personalità dei minori.
La sentenza in esame, quindi, affronta il tema della surrogazione di maternità, richiamando un recente caso in cui la Corte si è pronunciata accogliendo la richiesta di riconoscimento di co-genitorialità di due madri a seguito di fecondazione eterologa. Nella specie, due donne, una spagnola e l’altra italiana, avevano contratto matrimonio in Spagna, ricorrendo poi alla fecondazione eterologa per coronare il loro progetto familiare. A seguito della nascita del bambino, frutto dell’ovulo fecondato di una delle due madri, queste richiedevano ed ottenevano il riconoscimento del rapporto di filiazione in Spagna. Conseguentemente al divorzio, l’Ufficiale di Stato Civile italiano rifiutava la trascrizione dell’atto straniero di nascita nei registri italiani. A dirimere la controversia, interveniva la Suprema Corte, la quale avallava la pronuncia della Corte d’Appello favorevole alla trascrizione, essendo in presenza non già di un caso di surrogazione, bensì di una “tecnica fecondativa” simile alla fecondazione eterologa. Superava in tal modo, la Corte, anche la contrarietà all’ordine pubblico, intesa come attinente ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, desumibili dalla Carta Costituzionale, ma anche dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nonché dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Ebbene, la Corte, tornata a pronunciarsi sull’analogo caso “dei due padri”, ha riconosciuto solo la possibilità di “adozione in casi particolari” sia per le coppie femminili, sia per quelle maschili, attribuendo legittimità alle precedenti pronunce, in quanto esempi non già di surrogazione di maternità, ma di analoga fecondazione eterologa. Un rilievo critico è stato sollevato nella parte in cui le Sezioni Unite sono ricorse ad altri precedenti totalmente distanti dal caso in esame e sulla base dei quali la stessa pronuncia è poi apparsa come una palese discriminazione, in quanto prevedeva, a differenza del precedente delle “due madri”, come unica soluzione per il padre “affettivo” il “ricorso all’adozione in casi particolari”, ai sensi dell’art. 44, lett. d), della L. 184/1983. Tale rimedio, però, non farebbe certo venir meno la disparità di trattamento, almeno se non parzialmente.
L’istituto della “adozione in casi particolari”, rifugio in cui le Sezioni Unite sono riparate per trovare un adeguato supporto alla decisione adottata, infatti, non garantirebbe quella che astrattamente corrisponde ad un’adozione “piena”, che si realizza in caso di riconoscimento del rapporto di filiazione riservato, nel nostro ordinamento, alle coppie eterosessuali coniugate. In tale ipotesi, infatti, il minore entrerebbe a tutti gli effetti nella famiglia dei genitori, come se fosse nato in costanza di matrimonio, avrebbe un rapporto legale con tutti i membri della famiglia e l’adozione diverrebbe irrevocabile, elementi – questi – notoriamente estranei alla “adozione in casi particolari”, che rappresenterebbe, quindi, di fatto, una deminutio per i due padri ricorrenti.
La elaborazione giurisprudenziale, purtroppo, fino ad oggi è pervenuta a soluzioni divergenti tra loro, orientata più dalla peculiarità dei casi trattati, che richiede una differente applicazione del diritto, e dalla interpretazione di un principio, che dalla ferma applicazione di una regola; il risultato è stata la proliferazione di soluzioni giurisprudenziali diverse che se, da un lato, hanno disorientato il lettore, dall’altro hanno impedito la affermazione di un principio univoco da adottare. Pertanto, il fenomeno del c.d. “turismo procreativo europeo”, in tutte le sue possibili esplicazioni, ha finito per rappresentare il problema di maggior interesse, riguardando delicate questioni discendenti dalla surrogazione di maternità, una tra queste il contrasto con l’ordine pubblico nazionale ed internazionale.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno statuito che, in tema di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero, la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta dagli artt. 64 e ss. della L. 218/1995, deve essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico.
La lente di ingrandimento della Suprema Corte riguarda proprio il concetto di ordine pubblico e il significato che questo assume nel nostro ordinamento e nell’ordinamento internazionale. L’ordine pubblico può definirsi come una combinazione di “fattori sociali” e di “specifiche condizioni storiche” vigenti in un certo sistema giuridico, da cui scaturisce un complesso “coerente ed unitario di valori e di principi che informano e fondano l’ordinamento di uno Stato”. Appare necessario soffermarsi, seppur in maniera sintetica, sulla differenza che intercorre tra l’ordine pubblico “interno” e l’ordine pubblico “internazionale”, proprio perché richiamato dalla stessa Corte di Cassazione nella sentenza “dei due padri”.
L’ordine pubblico internazionale è un concetto “funzionale”, il suo contenuto non è e non può essere predeterminato, ma si precisa in relazione alla funzione cui il concetto stesso è orientato: rientrerebbero in tale nozione tutti quei principi di diversa origine che, in ragione del loro fondamentale valore nella lex fori, operano come limite all’inserimento di norme straniere o al riconoscimento di atti pubblici esteri. La recente nozione di ordine pubblico internazionale ci dice che lo stesso deve essere inteso “come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria” (V. Barba, L’ordine pubblico internazionale, in Rass. Dir. Civ., 2, 2018, 403). L’ordine pubblico, dunque, non è un principio, ma si compone di principi e di regole che ne sono diretta espressione, trovando così collocazione nella categoria delle clausole generali.
Le Sezioni Unite hanno ritenuto di far propria la nozione più ampia di ordine pubblico, comprendente non solo i principi costituzionali interni ed europei, ma anche “il modo in cui questi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti”. Il Giudice italiano, quindi, sarà chiamato a valutare la conformità o contrarietà dell’atto nei confronti dell’ordine pubblico internazionale, con riferimento ai principi della Carta Costituzionale, della Dichiarazione ONU e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Alla stregua di tale orientamento, nel concetto di ordine pubblico vanno considerati tutti quei principi nazionali ed internazionali, che riguardano la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, intesi come massima esplicazione del diritto di sposarsi, di costruire una famiglia e di non subire alcuna discriminazione, sperando in uno Stato che si impegni nell’eliminare ogni ostacolo alla libera esplicazione dei diritti fondamentali dell’uomo.
Se l’ordine pubblico, così inteso, si fonda su diritti inviolabili dell’uomo, sanciti dalla Costituzione e dalla Carta europea dei diritti fondamentali, occorre prestare attenzione, d’altro lato, ad un altro importante interesse, di cui più volte abbiamo letto e scritto nella Rubrica, ossia al Best Interest of the Child. Occorre, infatti, operare un equo bilanciamento proprio tra l’ordine pubblico e il preminente interesse del minore, tutelato e garantito dalla Dichiarazione ONU dei Diritti del Fanciullo, che afferma la necessità di una particolare protezione del minore, affinché possa svilupparsi in modo sano e in condizioni di libertà e dignità.
Nel 2014 la Suprema Corte (sentenza n. 24001 del 11/11/2014), allorquando era stata chiamata a pronunciarsi in tema di maternità surrogata di una coppia eterosessuale, richiamava il concetto di ordine pubblico e precisava che l’ordinamento nazionale, al fine di tutelare la sua coerenza interna, pone l’ordine pubblico internazionale come limite all’ingresso di norme e provvedimenti stranieri. La fattispecie riguardava il caso di una coppia eterosessuale italiana che aveva fatto ricorso alla maternità surrogata in Ucraina. Il bambino non era figlio biologico né del padre, né della madre (era stata violata in tal senso anche la legge ucraina che richiedeva un legame biologico tra genitori e figlio); nel caso di specie il divieto di maternità surrogata era qualificato come principio di ordine pubblico internazionale, ritenendo il maggior interesse del minore sussistente nel riconoscimento del rapporto di filiazione con la madre genetica, con possibilità di affidarlo alla madre sociale solo a seguito di procedure adottive.
Un ulteriore passo in avanti nell’interpretazione del limite dell’ordine pubblico si è avuto nel 2016, allorquando la Corte di Cassazione si occupò di un caso concernente la trascrizione dell’atto di nascita spagnolo da cui, in conformità alla lex loci, risultava la nascita di un figlio da due donne: la madre gestante spagnola e la madre biologica italiana (Cass. Civ., n. 19599 del 30/9/2016, sentenza delle “due madri”). In questo caso, la Suprema Corte affermava che il limite dell’ordine pubblico può impedire il riconoscimento dell’efficacia in Italia di un atto di stato civile straniero quando il diritto straniero di riferimento sia incompatibile con la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, che si desumono dalla Costituzione, dai Trattati costitutivi, dalla Carta dei Diritti fondamentali dell’UE e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Precisava la Corte che il ricorso ad una tecnica di surrogazione non prevista dalla L. 40/2004 (nel caso di specie una fecondazione eterologa, ammessa dopo l’intervento ablativo della Consulta con sentenza n. 162/2014) non collide con l’ordine pubblico, non ostando al riconoscimento dell’atto straniero neanche il principio di cui all’art. 269 cod. civ., trattandosi di norma in materia di prova della filiazione.
La Suprema Corte, pronunciandosi nel caso in esame, ha poi segnato un cambio di rotta, potendosi dedurre dal principio di diritto emesso che secondo le Sezioni Unite non tutte le norme possono aspirare a divenire principi dell’ordine pubblico nazionale ed internazionale, ma soltanto quelle che “incarnano” valori e principi costituzionali, ritornando così ad affermare il pacifico orientamento adottato nel 2014. L’ordinamento, infatti, vede nel solo istituto dell’adozione la realizzazione dei progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato, a tutela e garanzia di tutti i soggetti coinvolti, non ritenendo il riconoscimento dell’atto straniero di nascita la soluzione più adeguata e conforme a tutti quei principi che informano e permeano l’ordinamento italiano.
Alla luce di quanto fin qui esposto, si potrà ragionevolmente ritenere che il fulcro centrale della pronuncia della Suprema Corte è da rinvenirsi nella più alta concezione di ordine pubblico, intesa come massima tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Le Sezioni Unite sono intervenute circa il bilanciamento di diritti e interessi, quali quello del minore e della genitorialità intenzionale, statuendo che nessun desiderio di genitorialità potrebbe mai essere soddisfatto lecitamente con il ricorso a pratiche di surrogazione di maternità (o gestazione per altri), vietate dall’ordinamento italiano: la Corte, infatti, pur mantenendo saldo il baricentro dell’ordine pubblico nelle varie pronunce in tema di maternità surrogata e di trascrizione del c.d. parental order, si è espressa sempre guardando al caso concreto.
Lo scalpore scaturito dalla diversa pronuncia della Corte Suprema nelle due cause, quella delle “due madri” e quella “dei due padri”, avrebbe, in realtà, secondo alcuni commentatori, una sua logica spiegazione, anche se non pienamente condivisibile. Le Sezioni Unite, chiamate a pronunciarsi sul caso in esame, hanno valutato la tecnica di surrogazione adoperata in contrasto con l’ordine pubblico e con il principio secondo cui il rapporto di filiazione debba basarsi su un legame biologico, ritenendo la soluzione dell’adozione in casi particolari più conforme ai principi di ordine pubblico e al contempo la più soddisfacente per il miglior interesse del minore e per il desiderio di genitorialità intenzionale. Diverso procedimento argomentativo, invece, è stato seguito nella pronuncia delle due madri, giustificando il ragionamento sulla base della diversa tecnica di procreazione adoperata, che in quel caso prevedeva un “legame biologico” con la madre gestante.
“Sembrerebbe, quindi, che qualora sia presente il “legame genetico”, l’invocato interesse prevalente del minore conduca ad una tutela più ampia delle relazioni derivanti (anche) da surrogazione. Lo stesso legame biologico con almeno uno dei committenti favorisce il riconoscimento giuridico del rapporto tra figlio e “genitore sociale”, che non sia anche genitore biologico” (Daniela Mazzamuto, “La decisione delle Sezioni Unite: i nuovi fronti della genitorialità sociale”, in Diritto di Famiglia e delle Persone, fasc. 2, 2020). A contrario, mancando ogni “legame genetico” con i committenti, il superiore interesse del minore alla conservazione della relazione familiare instaurata con soggetti a lui geneticamente estranei viene valutato sulla base dei caratteri di tale relazione. Conseguentemente a questo orientamento, le Sezioni Unite hanno rigettato la domanda di trascrizione del provvedimento straniero di nascita, nonostante, per altro verso, tale pronuncia possa apparire punitiva per il minore, il quale sembrerebbe subire, in tal modo, il pregiudizio di non vedersi riconosciuto un legame familiare, già dichiarato in uno Stato terzo.
Anche la Corte Costituzionale è intervenuta in materia con una recente pronuncia (n. 221 del 23/10/2019), allorquando è stata chiamata a statuire circa la legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1 e 2, 4, 5 e 12, comma 2, 9, 10, della L. 40/2004. La Corte Costituzionale ha chiarito definitivamente come la Legge in questione sia da intendersi quale rimedio alla sterilità o infertilità umana, avente causa patologica e non altrimenti rimovibile, escludendo, nei fatti, che la procreazione medicalmente assistita possa rappresentare una modalità di realizzazione del desiderio di genitorialità.
Inoltre, un’interpretazione letterale dell’art. 1 della L. 40/2004 precisa che il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è soggetto a due indirizzi: il primo attiene alla funzione delle tecniche, cui si ricorre “al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dall’infertilità umana”, il secondo alla struttura del nucleo familiare, per cui sono presenti limiti di tipo soggettivo ed oggettivo, avendo cercato di garantire, da un lato, la riproduzione del modello familiare e, dall’altro, il mantenimento di un legame biologico, tra il nascituro e gli aspiranti genitori. Pertanto, in linea con le finalità sottese alla L. 40/2004, la giurisprudenza predominante ha ritenuto applicabile nei casi di famiglie omosessuali la soluzione improntata sull’istituto della “adozione in casi particolari”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 44, comma 1, lett. d), L. 184/1983.
La differenza essenziale tra l’adozione e la procreazione medicalmente assistita si rinviene in un bilanciamento di interessi, che nel primo caso è concreto, essendo il minore già in vita e, quindi, meritevole di tutela nel mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate; al contrario nel caso di procreazione medicalmente assistita le esigenze del minore sarebbero astratte, presentandosi come le migliori tutele che l’ordinamento dovrebbe apprestargli. La pronuncia della Corte di Cassazione ha trovato, allora, fondamento proprio nella recente interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale, che, superando il limite dell’ordine pubblico, ha risposto, in ossequio alla ratio della Legge stessa, che la procreazione medicalmente assistita si pone come soluzione ad una patologia e non già come mezzo di soddisfacimento di un’aspirazione soggettiva.
La pronuncia, ormai conosciuta, come quella “dei due padri” ha prestato il fianco a molteplici critiche e perplessità. Massimo Dogliotti ha sostenuto che: “… l’unica differenza della presente sentenza rispetto al suo precedente è che in esso si tratta di due donne e qui di due uomini. Una palese discriminazione di genere… Ed è assai curioso che, di fronte alle tante, rinvenibili tra coppie eterosessuali ed omosessuali, oggi invece se ne individui una, anch’essa peraltro intollerabile, tra coppie omosessuali femminili e maschili, stavolta a vantaggio delle donne e a scapito degli uomini” (M. Dogliotti, in “Le Sezioni Unite condannano i due padri e assolvono le due madri”, in Famiglia e Diritto, n. 7/2019).
È condivisibile l’osservazione del Prof. Dogliotti allorquando sottolinea “Il valore aggiunto per la donna è il rapporto biologico e l’empatia che si costituisce con l’organismo che va crescendo nel suo corpo. … Ma se, come in genere avviene, la donna nulla chiede per sé, si troverà, in sostanza, con riferimento all’ordinamento italiano, fatte le debite proporzioni, nella condizione di quella che ha portato a termine la gravidanza, ma non consente di essere nominata nell’atto di nascita del figlio e, dunque, è giuridicamente inesistente per lui e la coppia maschile, come quella che ottiene il figlio in adozione piena, ovvero in base al rapporto biologico, quando sia stato utilizzato nella fecondazione il seme di uno dei due uomini. È appena il caso di precisare che non ha senso parlare di tutela della gestante, come pure fa la Cassazione per giustificare la efficacia del provvedimento, quando questa, come accade nella grande maggioranza dei casi, non ha alcun interesse ad assumere il ruolo di madre…”.
E condividendo appieno il principio che ha ispirato le considerazioni innanzi riportate del Prof. Dogliotti, appare superfluo sottolineare che la forzata tutela del “rapporto biologico” a supporto della motivazione della sentenza “dei due padri”, in aperta antitesi con quella delle “due madri”, viene pesantemente smentita proprio dalla determinazione della donna gestante di non voler rivestire in alcun modo il ruolo di madre e di non voler essere in alcun modo presente nella vita del nascituro, elidendo brutalmente, già in nuce, quel “vincolo biologico” su cui paradossalmente la Suprema Corte ha fondato la propria statuizione. In tal caso, è evidente, sottolinea l’Autore, che “il minore si ritroverà necessariamente privo di un genitore”.
Parimenti critiche le considerazioni sulla pronuncia in esame del Prof. Alberto Figone, che ha sottolineato come: “Sta di fatto che ritenere contrari all’ordine pubblico (in un’eccezione più lata rispetto a quella elaborata dalla prevalente giurisprudenza, proprio in relazione a diritti sensibili, quali quelli dei minori) un atto amministrativo o una pronuncia giudiziale, formati all’estero, ove si attribuisca la genitorialità a due padri, determina una grave discriminazione di genere nelle coppie same sex, a seconda che essa siano composte da donne piuttosto che da uomini, pur condividendo tutte il medesimo intento di costituire una famiglia, allietata dalla nascita di figli. Nel contempo (e questa è la conseguenza più grave) si introduce una disparità di trattamento tra figli: quelli nati da una coppia di donne potrebbero godere dello status filiationis pieno nei confronti di entrambe; al contrario, quelli nati all’interno di una coppia di uomini potranno al più beneficiare dello status di figli adottivi (con adozione in casi particolari) rispetto al compagno del padre biologico. Lo “spettro” della maternità surrogata danneggia pertanto in primo luogo i figli, incidendo sul loro diritto fondamentale diritto ad una genitorialità piena e, ancor prima sull’identità personale” (A. Figone, in il Familiarista del 3/6/2020).
Il panorama descritto è evidentemente complesso, articolato, sicuramente delicato, per certi tratti molto nebuloso e ingabbiato nelle maglie di un tessuto sociale, giuridico, morale, emozionale ancora in piena e continua evoluzione. È fuor di dubbio che emerge, in tutta la sua imponenza, l’esigenza di un coerente bilanciamento di interessi, che veda, comunque, il minore garantito nelle sue esigenze concrete. Ma è un bilanciamento che, al momento, sembra avere un orizzonte davvero molto lontano, confuso com’è fra gli orientamenti giurisprudenziali, di merito e di legittimità, più diversi, a volte anche pericolosamente contrastanti fra loro, gli interventi della giurisprudenza sovranazionale, solo a volte chiarificatori, e le pressanti esigenze di un nuovo sentire sociale, morale e giuridico sulla affermazione di un apparentemente moderno significato di “famiglia”.
- Avvocato. ISP Bari