di Maurizio Quilici *
Sono tante le foto che lo ritraggono su un sentiero di montagna, sulla neve con gli sci, in bicicletta, arrampicato su una roccia, a cavallo, in mezzo a un bosco… Sempre con Elena e Diego, i suoi gemelli. Tutti e tre con il sorriso, con il volto radioso: la felicità di un genitore che apre la vita nei suoi aspetti più belli – lo sport, la natura… – alle sue creature e quella di bambini che la scoprono in una delle due amate figure di riferimento: il padre. Le ultime immagini pubblicate sui social erano accompagnate dalla frase “Con i miei ragazzi… sempre insieme”.
Quello stesso padre, che a detta di molti era “un padre che viveva per i figli”, a un tratto ha deciso che la vita andava troncata: l’ha tolta ai suoi bambini, l’ha tolta a se stesso. Non era amore, il suo. Magari sofferenza, dolore, disagio… ma non amore. O, se preferite, era un amore profondamente malato, un non-amore.
E’ l’orrendo episodio accaduto a Margno, nel Lecchese, nella notte fra il 27 e il 28 giugno scorsi, quando un uomo di 45 anni, Mario Bressi, impiegato in una multinazionale delle telecomunicazioni, ha strozzato i suoi gemelli, un maschio e una femmina di dodici anni, mentre era in vacanza con loro, e poi si è ucciso gettandosi da un ponte. Non è il primo episodio di un genitore che uccide un figlio. Altri ne sono accaduti, in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Per lo più (ma non solo) con il padre come autore. Quasi sempre nel corso, o in previsione, di una separazione; più raramente per difficoltà economiche che rendevano incerto il futuro della famiglia.
Come dimenticare, anche se sono passati 25 anni, l’uccisione dei tre figli da parte dell’ex poliziotto Tullio Brigida? Avevano 13, otto e tre anni. I loro corpi furono ritrovati un anno dopo. O il caso di Matthias Schepp, il mite ingegnere svizzero che scompare con le sue gemelle di sei anni, le uccide e inscena una mostruosa “caccia al tesoro” inviando alla moglie dieci lettere ad alcuni giorni di distanza l’una dall’altra fino a quando non si getta sotto un treno? Nell’ultima missiva, la frase: “Le bambine riposano in pace. Non hanno sofferto”. Era il 12 febbraio 2011, i corpi delle due piccine non sono mai stati trovati, alla madre è stato negato anche il conforto di piangere su una tomba.
Mi è difficile scriverne, è inutile negare che l’argomento mi turba e mi rendo conto solo ora che in tanti anni non è stato mai affrontato in questo notiziario. Difficile scriverne e difficile farlo mantenendo il giusto equilibrio e cercando di capire – senza pregiudizi e stereotipi – quali possano essere le cause (certo non la causa) che è all’origine di gesti così estremi.
Diciamo subito che senza conoscere a fondo i protagonisti di questo dramma, senza sapere nulla dei loro rapporti, del loro carattere, dei loro comportamenti ma avendo a disposizione unicamente le notizie di cronaca riportate dai media si possono fare solo ipotesi, adombrare spiegazioni, formulare dubbi. Sarebbe ingiusto tranciare giudizi, prendere posizione pro o contro, come purtroppo è accaduto sui social, dove – come era ampiamente prevedibile, visto che accade sempre in questi casi, – la pietà, la pena, l’incredulità, la vicinanza a quella madre disperata hanno lasciato il posto all’odio, alla violenza, alla rabbia nei confronti del padre assassino, sommerso da insulti e maledizioni. Ma si sa: sulla tastiera del PC è più facile esprimere violenza verbale e odio che non strazio e dolore.
Dunque le notizie di cronaca ci dicono che era in vista una separazione. La coppia era in crisi da un paio d’anni e la madre, coetanea del marito, ingegnere biomedico, si era rivolta nel maggio scorso a un avvocato, Davide Colombo. Questi ha dichiarato che fra i due non c’erano state minacce o denunce, liti o violenze e che la donna non aveva nulla da eccepire nei riguardi del marito e non aveva nessuna intenzione di togliergli i figli. Se questo è vero, non si era dunque, come in altri analoghi episodi, nel cuore di una separazione fortemente conflittuale, non si trattava di uno di quei casi in cui odio e rancore conducono spesso la madre a negare al padre il rapporto con i figli, con devastanti effetti psicologici. Perché, allora, quei messaggi di aspro rimprovero (“E’ colpa tua… hai rovinato la nostra famiglia”) che l’uomo ha inviato alla moglie poco prima di togliere la vita ai figli? Che cosa lo ha spinto a quella terribile decisione?
Nella massa di commenti sui social, qualcuno ha accennato al “dramma dei padri separati” (come ha scritto in un “occhiello” sulla vicenda il quotidiano di Napoli il Mattino, con un collegamento forse troppo arbitrario e diretto), che spesso nelle separazioni corrono il rischio di perdere i figli. “E’ il sistema giuridico italiano in tema di separazioni e divorzi che causa queste tragedie” scrive Sergio. E Lorenzo: “Quand’è che le donne capiranno che portare un uomo alla disperazione è un fatto gravissimo?”.
Questa potrebbe – ripeto potrebbe – essere una delle concause dell’episodio. Spero vivamente di non essere frainteso. Nulla può giustificare un gesto così orribile. E qui non si tratta certo di giustificare ma di capire. Ammesso che sia possibile. Non ho dubbi che nelle vicende di separazione e affidamento il padre sia la parte debole, almeno a breve e medio termine. L’aspetto più critico che lo riguarda, quando la separazione è conflittuale (e purtroppo lo è nella gran parte dei casi) è la perdita dei figli. Nonostante la percentuale di affidamenti condivisi si avvicini ormai alla totalità, sappiamo bene che si tratta in molti casi di pura formula. Il genitore “collocatario” o affidatario è quasi sempre la madre (è la maternal preference che, volenti o nolenti, continua a dettar legge nelle separazioni); al padre spetta, come un tempo, un “diritto di visita” spesso risibile, facilmente eludibile da parte della madre con mille escamotage, accompagnati a volte da accuse strumentali di violenze fisiche o, peggio, di abusi sessuali sui figli. Senza nasconderci che anche i padri danno spesso nella separazione il peggio di sé, ignorando il dovere economico del mantenimento dei figli, trascurando in vari modi la prole (per non parlare di coloro che, incapaci di accettare la separazione, agiscono con violenza contro la partner aggredendola, ferendola, uccidendola), il rischio di essere privati del rapporto con i figli è concreto. E’ un rischio che può tradursi in un dolore indicibile, esasperare al limite della follia, del gesto inconsulto (non sono pochi i padri che si sono suicidati per il dolore di non riuscire a frequentare i figli). Lo ripeto: non è una giustificazione, ma in certi casi può essere una spiegazione.
E’ certamente possibile che questi uomini non avessero un perfetto equilibrio psichico e nervoso (quanti di noi lo hanno?), è possibile che nascondessero una debolezza, una fragilità, una paura che li ha spinti ad arrendersi – e nel modo peggiore – anziché combattere per i loro diritti di genitore. Del resto a tutti noi viene spontaneo pensare che l’uccisione di un figlio sia di per sé l’espressione di una patologia o di uno sconvolgimento della mente. Tuttavia, mi pare legittimo pensare che quella eventuale fragilità, quel disturbo di fondo, forse anche quella patologia, non si sarebbero mai manifestati se la separazione non avesse significato, in concreto o in prospettiva, la probabile perdita dei figli. In questo senso – e con le dovute cautele – si può stabilire un nesso fra questo tipo di episodi, che quasi sempre avvengono in un contesto di separazione, e il sistema giudiziario delle separazioni e affidamenti che tende a privilegiare la madre e ad estromettere il padre. Come ha scritto Iaia Caputo nel libro Il silenzio degli uomini (Feltrinelli, 2012) nel quale un intero capitolo è dedicato al “gesto di Medea” commesso da padri, “non si può chiedere agli uomini di essere presenze amorevoli per i figli e poi estrometterli brutalmente dalla quotidianità degli affetti per farne dei ‘visitatori’ saltuari e ininfluenti”. Nello stesso libro, Caputo, ricordando la piccola Nicole, di tre anni, uccisa nel 2010 dal padre, Alberto Fogari, con un fucile da caccia (l’uomo poi si suicidò con la stessa arma), scrive: “Solo un evento può aver scatenato la furia dell’uomo: la decisione del tribunale, risalente a due mesi prima, di affidare la bambina alla madre e di consentire a lui un solo giorno di visita alla settimana”.
E’ possibile, certo, che negli autori di questi gesti sopravviva anche un sentimento patriarcale e arcaico di possesso e di dominio, che rende loro intollerabile l’idea di essere abbandonati, “la furia e la disperazione” – è sempre Caputo nel libro appena citato, – “di un potere morente”. Un modo aberrante di riaffermare un diritto assoluto sulla donna da parte del maschio e un evidente segnale di debolezza, disorientamento, paura.
E’ anche evidente – nel gesto e nei messaggi che lo accompagnano – il desiderio di vendetta, la volontà di infliggere all’altro il maggior dolore possibile, colpendolo in ciò che ha di più caro. “E’ colpa tua se la faccio finita… hai rovinato la famiglia… non vedrai più i bambini”: queste alcune delle frasi che Mario Bressi ha indirizzato alla moglie prima di uccidere e uccidersi. Una dinamica antica che Euripide e Seneca descrissero drammaticamente nella loro Medea. Nell’opera di Seneca, a Medea che chiede a Giasone di avere con sé i suoi figli nell’esilio, Giasone risponde: “Vorrei esaudirla, te lo giuro, questa tua preghiera. L’amore paterno me lo vieta. Non potrei sopportarlo (…). Non ho altra ragione di vita, non ho altro conforto per il mio cuore provato dalla sventura. Piuttosto farei a meno del respiro, degli arti, della vista”. Proprio questo voleva sentirsi dire Medea: “Tanto li ama i suoi figli? Bene, lo tengo in pugno, ho trovato il punto vulnerabile…”. Il dramma si svolge inesorabile, una Medea intrisa di odio selvaggio si appresta a scarificare i figli: “Figli, che foste miei, pagherete voi per la colpa di vostro padre”. E ancora: “Proprio dove non vuoi, dove soffri di più, io ti colpirò con la mia spada”.
Nella versione euripidea, più scarna e secca, il coro chiede a Medea: “Uccidere le tue creature: ne avrai il coraggio?” E Medea risponde: “E’ il modo più sicuro per spezzare il cuore a mio marito” (saggiamente il coro ribatte: “E per procurare a te stessa il massimo di infelicità”).
Quello che mi pare da considerare con molta cautela è l’uso del termine raptus che spesso accompagna sui giornali questi episodi e che anche in questo caso è stato abbondantemente utilizzato. Un termine ambiguo e molto discusso sul piano psichiatrico, tant’è che alcuni psichiatri in casi come questo ne prendono le distanze e tendono a vedervi non tanto forme di patologia, quanto espressioni di violenza “sociale”. Come Claudio Mencacci, past president della Società Italiana di Psichiatria, o come lo psichiatra Vittorino Andreoli. Mencacci, in più interviste sull’episodio di Margno, ha affermato: “Questa non è patologia. E’ possesso, potere, prevaricazione”. Altri professionisti, invece, come il criminologo Massimo Picozzi o lo psichiatra Gino Zucchini, già presidente della Società Italiana di Psicoanalisi, sostengono la realtà del raptus, come alienazione improvvisa e distruttiva dalla coscienza. Picozzi parlò di “un raptus che ha rimosso” a proposito dell’uccisione del piccolo Samuele da parte di Annamaria Franzoni (il famoso “delitto di Cogne”); Zucchini, in una intervista al mensile NoiDonne, affermò che “sì, il raptus esiste”.
Si potrebbero fare molte altre considerazioni e riflessioni, tanto l’argomento è dolorosamente vasto e altrettanto oscuro. Si potrebbe obiettare, con rammarico, che l’atteggiamento della stampa è spesso assolutorio quando a dare la morte a un figlio è la madre (depressione post-partum, solitudine, stress, mancanza di collaborazione e sostegno da parte del partner e, non ultimo, il raptus) e di irrevocabile condanna se il gesto è opera di un padre. E’ stato così – sono solo alcuni esempi – per la madre di Monte Argentario che nel 2017 uccise il figlio diciassettenne e poi si suicidò; per la donna che nel 2014, nel Ragusano, uccise il figlio di otto anni, Loris; per il delitto di Cogne, che divise l’Italia in innocentisti (e giustificazionisti) da un lato e colpevolisti dall’altro. Ma temo che questo attirerebbe accuse di maschilismo, atteggiamento dal quale mi ritengo immune.
Come concludere? Senza certezze e senza giudizi. Con la tristezza per qualcosa che non dovrebbe mai accadere, perché nulla (non è retorica) dovrebbe toccare l’innocenza e la sacralità dei bambini. Con l’auspicio che si realizzi finalmente quella “cultura della separazione” che il neuropsichiatra Giovanni Bollea auspicava di continuo e che è ancora di là da venire, senza “guerra dei sessi” e senza la strumentalizzazione dei figli. Con il desiderio che l’affido condiviso sia davvero tale e non un’etichetta di facciata, affinché i figli non debbano mai perdere uno dei genitori. E naturalmente con la speranza che segni di disagio in famiglia, di sofferenza, di tensione, depressione o angoscia (paura e angoscia generano spesso violenza) vengano colti e segnalati e che vi siano persone e strutture in grado di intervenire rapidamente ed efficacemente. Forse un’utopia, visto il continuo ripetersi di episodi come questo tristissimo di Margno.
* Presidente dell’I.S.P.