di Arnaldo Spallacci *
Per molti anni si è assistito in Italia e in altri paesi ad un acceso dibattito sulla condizione maschile e paterna nella famiglia, sul contributo dei padri al lavoro domestico e in specie alla cura dei figli. Ancora più infuocato il dibattito sulle conseguenze di una eventuale separazione, sul cambiamento delle condizioni di vita, a svantaggio – secondo opinioni diffuse nel passato – delle donne, mentre in tempi recenti è in aumento la quota di chi dice che anche i mariti (specialmente se parliamo di padri) soffrono sempre più acutamente in termini economici gli effetti della rottura del legame coniugale.
Dopo anni di discussioni, ricerche, interventi in ambito politico e legislativo (congedi di paternità, legge sull’affido congiunto …) che hanno contraddistinto un ormai lungo processo storico, con cambiamenti evidenti nella paternità e nelle relazioni di genere, quale è la condizione di uomini e padri all’alba del 2016? L’analisi della situazione odierna deve tener conto di una ulteriore variabile che ha inciso nella nostra vita di uomini e di donne: la crisi che dal 2007-2008 attanaglia la nostra economia, e che ancora non accenna ad affievolirsi. In questo ambito si scoprono novità interessanti, che testimoniano una storica “inversione di tendenza” in particolare alla sfera economica, dell’occupazione e del reddito. Riguardo al mercato del lavoro, come ha efficacemente sintetizzato Luca Ricolfi in un articolo nel Sole 24 Ore del 6.9.2015, dal 2008 al 2014 la occupazione maschile è diminuita (causa principale la deindustrializzaione) del 6.3%, mentre quella femminile (grazie alla tenuta del terziario) è aumentata dello 0.7%; la diminuzione dell’occupazione ha colpito particolarmente i giovani più degli over 45, e gli italiani più degli stranieri. La seconda novità sta nella distribuzione del reddito: notoriamente il reddito maschile è più alto di quello femminile, ma fra il 2008 e il 2012, forse per la prima volta negli ultimi decenni, in base ai dati della Banca d’Italia (Banca d’Italia, Supplemento al Bollettino Statistico, 2012), il reddito procapite individuale maschile è diminuito di circa 900 euro, quello femminile è aumentato di circa 700 euro. Inoltre è aumentata la povertà maschile, che è per la prima volta in linea con quella femminile (Banca d’Italia, Supplemento al Bollettino Statistico, 2014). La mobilità sociale, che si dice ridottissima nel nostro Paese, ha previlegiato negli ultimi anni alcune fasce di giovani donne e assai meno gli uomini (Istat, Rapporto annuale, 2012). In sintesi: se fotografiamo la situazione in un dato istante (in termini sincronici), ancora oggi gli uomini sono avvantaggiati per molti parametri rispetto alle donne (persiste ad esempio il gender gap nei salari), ma se osserviamo l’andamento storico dei fenomeni (in termini diacronici), la situazione femminile, specie relativamente all’occupazione, appare più dinamica, mentre quella degli uomini negli ultimi lustri appare stagnante, se non in palese regresso.
Tutto ciò ha comportato effetti precisi in Italia nel ciclo di vita dei due sessi; le transizioni importanti, che riguardano la famiglia e la situazione genitoriale, si sono ulteriormente spostate in avanti: la metà dei giovani maschi, alla età non propriamente adolescenziale di 25-34 anni, vive oggi ancora nella famiglia di origine; l’età media del primo matrimonio era per gli uomini di 28.3 anni nel 1998, e si è portata a 33.4 anni nel 2010; il primo figlio nasce quando l’uomo ha già 35 anni; la eventuale separazione raggiunge il picco massimo nella fascia di età di 45-49 anni.
E i padri, in questo quadro maschile fosco, sono cambiati? Considerando i parametri ora citati, la situazione non dovrebbe essere rosea: i padri, maschi, di età giovanile, nati in Italia, ricadrebbero nella fascia di individui che più hanno sofferto per la crisi. Non è facile trovare una esauriente dimostrazione statistica del peggioramento specifico della vita dei padri, seppure i fenomeni sopra riportati – ad esempio lo slittamento in avanti delle transizioni – già ne costituiscono una testimonianza.
Vediamo ora che cosa è successo fra le pareti di casa; ad esempio, le tradizionali asimmetrie nell’impegno domestico fra uomini e donne, iniziano a incrinarsi? I dati sono molteplici, non sempre concordanti, talvolta di difficile comparazione, ma nonostante ciò è possibile tracciare alcune linee interpretative e sottolineare nuovi elementi, qualitativi e quantitativi. In sintesi potremmo dire che l’impegno domestico degli uomini è minimo in età giovanile (più basso di quello, anch’esso molto ridotto, delle ragazze della stessa età), ed in tale senso l’esperienza dei giovani maschi italiani in famiglia appare come una età dorata, nel corso della quale però si iniziano ad assumere “cattive” abitudini. Infatti successivamente, nell’ampia fascia di età intermedia fra giovinezza ed età adulta (25-44 anni) l’impegno degli uomini in famiglia aumenta, seppure in modo ancora ampiamente inferiore rispetto a quello delle donne; nella fascia successiva che giunge alle soglie della maturità (45-64 anni) diminuisce il tempo dedicato dagli uomini al lavoro retribuito, e aumenta quello rivolto al lavoro famigliare; dopo i 65 anni, quando il tempo per il lavoro retribuito è quasi nullo, raggiunge il top quello dedicato al lavoro famigliare (Istat, Uso del tempo, 2012). Se quindi permane una differenza sostanziale nell’impegno di uomini e donne, è opportuno precisare che i comportamenti maschili non sono affatto omogenei, ma – fatto spesso sottovalutato dalla letteratura “di genere” – differenziati al loro interno in base a molti fattori. Ad esempio, lavorano di più in casa gli uomini in età avanzata, i single, i padri soli, i non lavoratori.
Quello che si può dire con certezza, in base alle indagini statistiche, è che negli ultimi 25 anni si è verificata una ridefinizione dei tempi famigliari in modo assai evidente per le donne, che hanno dedicato meno tempo alla casa, e viceversa in modo meno visibile per gli uomini, che hanno dimostrato un impegno maggiore, ma ancora contenuto. Le ultime ricerche sul tema hanno ulteriormente approfondito i fattori che incidono sull’impegno maschile, in particolare nella cura dei figli; è risultato ad esempio che un elemento che influenza il comportamento dei padri sta nella condizione sociale della moglie, i mariti delle donne laureate lavorano di più in casa. In base a questi elementi di analisi, si è giunti oggi ad una interessante ed opportuna distinzione, che classifica gli uomini partner di donne lavoratrici in due categorie: padri low care, circa il 55% del totale del fronte paterno, e padri highcare, il 45% restante (T. Canal, Paternità e cura familiare, Osservatorio Isfol, 2012). Il maggior tempo dedicato alla casa da parte di alcuni padri non dipende però solo da ragioni strutturali, od economiche, ma anche da un vero cambiamento culturale maschile, nonostante la bassa fruizione dei congedi parentali. Per completare il quadro, occorre sottolineare che rimane inalterata, seppure con meno barriere che nel passato, una certa divisione del lavoro nella famiglia, nel cui alveo l’uomo provvede maggiormente all’amministrazione, alle riparazioni, all’acquisto e manutenzione di determinati beni, e riguardo alla cura dei figli provvede in particolare alle attività del tempo libero e alla socializzazione esterna, mentre le donne sembra siano ancora quelle più responsabilizzate nella pulizia della casa, nella cucina, e per i figli nei lavori di cura più diretti (fare il bagno, seguirli durante le malattie, ecc.).
Dopo la separazione permangono, e probabilmente si sono a accentuate con la crisi, le difficoltà per entrambi i genitori, ma al contempo le statistiche recenti (Istat, Separazioni e divorzi, 2012) rimarcano i notevoli costi che gravano sui padri, il 94% dei quali partecipa al mantenimento economico dei figli, con un contributo mensile medio in Italia di 521, euro; per altri aspetti si sottolinea che l’assegno al coniuge a carico dei mariti ha un valore medio di 496 euro, e che l’assegnazione la casa per il 58% dei casi va alla moglie.
Sulle opinioni e abitudini di uomini e padri nella vita famigliare, molte indagini sono state realizzate negli ultimi decenni; da una delle più recenti (Eurispes, I Nuovi padri. Uomini e donne a confronto, 2015), risulta che a larga maggioranza padri e madri concordano nel riconoscere che gli uni e le altre si alternano con equilibrio nella cura dei figli e negli impegni domestici quotidiani. Così come maschi e femmine oggetto di intervista riconoscono a larghissima maggioranza che quando il figlio ha bisogno di aiuto il padre è sempre o spesso presente. Un dato culturale importante sta nel fatto che circa solo il 15% dei rispondenti maschi afferma di aver chiesto consigli al proprio padre sul modo di comportarsi coi propri figli, e di averne quindi preso come riferimento il modello; più prudentemente circa la metà afferma che il padre ha costituito solo “in parte” un modello per la educazione dei figli. Pare quindi verificata la tendenza alla rottura delle “genealogie maschili”, che i nuovi padri postpatriarcali metterebbero in atto come critica implicita della figura paterna tradizionale (M. Deriu, Disposti alla cura? Il movimento dei padri tra rivendicazione e conservazioni, in E. Dell’Agnese e E. Ruspini, Mascolinità all’italiana, Costruzioni, narrazioni, mutamenti, 2007). Come ulteriore dimostrazione di ciò, i padri intervistati, nella misura circa del 60%, affermano di essere meno autoritari verso i figli rispetto a quanto i padri sono stati con loro. L’immagine di un padre tendenzialmente partecipativo e non autoritario che risulta dalla indagine dell’Eurispes è indubbiamente più positiva di quella emersa da altre.
Come si nota i dati, le valutazioni, le suggestioni non compongono un quadro coerente, e ciò rende complicato trarre delle conclusioni univoche. Alcuni punti appaiono indiscutibili: la crisi ha peggiorato la condizione maschile, specie dei giovani, nel mercato del lavoro e nel reddito. Non è azzardato quindi affermare che si sono approfondite sotto il profilo economico le differenze in seno al genere maschile, che sempre meno appare come un corpo unico e compatto di privilegiati dominatori; al tempo stesso sono cambiati atteggiamenti e cultura degli uomini, si è disintegrato il modello unico patriarcale, tant’è che oggi si può legittimamente parlare di “policultura maschile” (Spallacci, Maschi, 2012). Tutto ciò è avvenuto anche nell’universo paterno: nella dialettica condizione paterna-condizione maschile, la trasformazione dei padri ha costituito un potente motore del mutamento della mascolinità contemporanea. Una realtà quindi in parte inafferrabile, anche perché all’interno del maschile di fronte agli innovatori ancora persistono ampie sacche di resistenza al cambiamento. In questo puzzle, è opportuno diffidare delle facili generalizzazioni; chi pronuncia il termine “padre” o “uomo” dovrebbe opportunamente domandarsi a quale figura, modello, rappresentazione si sta riferendo.
* Sociologo. ISP Bologna