di Gianluca Aresta *
L’azione per il disconoscimento di paternità, disciplinata dagli articoli 243 bis e seguenti del codice civile, è lo strumento giudiziale offerto dall’ordinamento per superare la presunzione legale in base alla quale il figlio nato da una donna coniugata si ritiene generato dal di lei marito. L’azione mira a far accertare che il figlio è stato generato da altro uomo e che, allo stato, è figlio della sola madre, salvo un eventuale riconoscimento da parte del padre biologico, ovvero una successiva azione di dichiarazione giudiziale di paternità, che la madre o il figlio potranno, se del caso, esperire.
Fino all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 154 del 28/12/2013, il disconoscimento della paternità era ammissibile soltanto nelle ipotesi tipiche contemplate dall’abrogato art. 235, nn. 1, 2 e 3, cod. civ. (ossia, mancata coabitazione dei coniugi nel periodo di presunto concepimento; impotenza, anche solo di generare, del marito; adulterio della moglie o celamento di gravidanza). Il D. Lgs. 154/2013, entrato in vigore il 7/2/2014, ha abrogato l’art. 235 cod. civ., ha disciplinato la fattispecie con il disposto normativo del novellato art. 244 cod. civ. – rubricato “Termini dell’azione di disconoscimento” – e, con l’art. 17, ha stabilito che: “L’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata dal marito, dalla madre e dal figlio medesimo. Chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre. La sola dichiarazione della madre non esclude la paternità”.
Con la riforma del 2013, quindi, si è escluso espressamente che l’azione di disconoscimento della paternità possa essere esperita solo al ricorrere delle ipotesi tipizzate nella vecchia disciplina normativa e si è previsto che – al fine di vedere accolta la propria domanda di disconoscimento – l’attore legittimato debba dimostrare, con qualunque mezzo, unicamente che non sussiste alcun rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre. I presupposti dell’azione sono evidentemente tipici, ancorché uniti da un unico denominatore comune, rappresentato da un “adulterio in senso lato”, con connesso concepimento ad opera di uomo differente dal marito di colei che ebbe a partorire, a prescindere dalle specifiche circostanze in cui detto adulterio venne consumato.
Proprio muovendo da tale premessa, l’art. 9 della L. n. 40 del 19/2/2004 aveva previsto che in caso di accesso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo non fosse ammissibile esercitare l’azione di disconoscimento di paternità: la decisione di entrambi i coniugi di avere un figlio tramite il ricorso ad una “banca del seme” sarebbe incompatibile con un adulterio, ancorché, come è evidente, il figlio non possegga il patrimonio genetico del marito della madre; tuttavia, è appena il caso di segnalare, magari nell’ottica di un approfondimento in una prossima occasione, che la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7965 del 28/3/2017, statuiva che “la regola prevista dall’art. 235 c.c., applicabile ratione temporis, disciplina anche le filiazioni originate da fecondazione artificiale, tenuto conto che il quadro normativo, a seguito dell’introduzione della L. n. 40 del 2004 – come formulata ed interpretabile alla luce del principio del favor veritatis – si è arricchito di una nuova ipotesi di disconoscimento”. Nessuna preclusione sarebbe configurabile, invece, per il figlio, dovendosi ritenere, in tal caso, prevalente il principio del favor veritatis.
È notorio che quando si verifica una nascita da donna coniugata, l’art. 231 cod. civ. – rubricato “Paternità del marito” – attribuisce al marito di lei la paternità del nato; a sua volta, il dettato normativo di cui all’art. 232 cod. civ. – rubricato “Presunzione di concepimento durante il matrimonio” – integra la previsione con una presunzione di concepimento durante il matrimonio, quando la nascita avviene se non sono decorsi ancora trecento giorni da una serie di eventi tipizzati (data dell’annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio) che incidono sul vincolo matrimoniale o sulla convivenza. Si tratta di una duplice presunzione, in forza della quale viene, di regola, formato l’atto di nascita, ai sensi e per gli effetti dell’art. 29 del D.P.R. n. 396 del 3/11/2000, di figlio nato all’interno del matrimonio, costitutivo del relativo status; ciò, salvo che la donna dichiari il figlio come concepito con persona diversa dal marito, riconoscendolo come nato al di fuori del matrimonio.
Il disconoscimento di paternità rappresenta, quindi, un’azione di stato, finalizzata a superare la presunzione di paternità e, pertanto, a far accertare giudizialmente che il figlio non è stato generato dal marito della madre; si tratta dell’unico rimedio esperibile, pure nelle ipotesi in cui sia intervenuta declaratoria di nullità del matrimonio tra i genitori, come chiaramente affermato dalla Suprema Corte di Cassazione: “La presunzione legale di paternità di cui all’art. 231 cod. civ., a norma della quale il marito della madre è padre del figlio da essa concepito durante il matrimonio, può essere vinta soltanto con l’azione di disconoscimento di cui all’art. 235 cod. civ. e, quindi, da parte dei soggetti, nei termini e nelle condizioni all’uopo previste, ancorché vi sia stata declaratoria di nullità del matrimonio tra i coniugi” (così, Cass. Civ., Sez. I, n. 9379 del 8/6/2012). La presunzione di paternità si ricollega strettamente all’art. 143 cod. civ., dove è annoverato, tra i doveri derivanti dal matrimonio, anche quello alla fedeltà (intesa nell’accezione più ristretta di dovere di esclusività del coniuge nei rapporti sessuali).
Fra le problematiche connesse alla azione di stato in esame particolare rilievo assume la tutela di quei soggetti (e dei loro immediati interessi) che vedono un diretto coinvolgimento a seguito della proposizione della azione di disconoscimento di paternità e della conseguente statuizione giudiziale, primo fra tutti il minore interessato. La giurisprudenza, sia di legittimità, sia di merito, ha avuto modo di statuire ripetutamente, con orientamenti a dir poco ondivaghi che hanno messo a dura prova la tenuta della necessità di cristallizzare un principio guida in materia, in ordine alla prevalenza, proprio nel giudizio di disconoscimento di paternità, del principio del favor veritatis, inteso quale interesse a far prevalere la verità biologica sull’interesse del minore alla stabilità dei rapporti familiari e alla prevalenza della cosiddetta verità legale; tutto ciò, anche in considerazione della assenza normativa “di ogni automatismo nel cogliere l’interesse del minore rispetto al principio di verità biologica della filiazione” (come ribadito da Cass. Civ., Sez. I, n. 8617 del 3/4/2017).
Nel tentativo di superare le diversità che emergevano tra l’istituto del “disconoscimento di paternità” e quello di “azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità” in passato, si è fatto, più di una volta, ricorso all’intervento della Corte Costituzionale (possiamo ricordare, fra le diverse pronunce, le sentenze n. 112 del 22/4/1997, n. 216 del 3/7/1997 e n. 322 del 25/11/2011). I giudici della Consulta, però, sino a pochi anni fa, hanno sempre rigettato, con riferimento agli art. 2, 3, 30 e 31 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 cod. civ. (rubricato “Azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità”) nella parte in cui non prevedeva che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minorenne per difetto di veridicità potesse essere accolta solo quando fosse ritenuta dal Giudice rispondente all’interesse del minore stesso; tanto sul presupposto che non vi fosse conflitto tra favor veritatis e favor minoris, in ragione del fatto che la verità dovesse sempre costituire “l’essenza stessa dell’interesse del minore, quale inviolabile diritto alla sua identità”, così individuando altri rimedi, quali l’adozione in casi particolari, per correre ai ripari di un cambio di status emotivamente destabilizzante.
Ancora sino a pochi anni fa la Suprema Corte ribadiva, con un orientamento evidentemente contrapposto al principio innanzi enunciato dalla Consulta, come l’interpretazione corretta delle norme sui disconoscimenti di paternità, conformemente alla previsione dell’art. 30 della Carta Costituzionale – “La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità” – andasse nel senso di prediligere i valori inerenti alla certezza e alla stabilità degli status, privilegiando la paternità legale rispetto a quella naturale e, quindi, al favor veritatis (in termini, Cass. Civ, Sez. I, n. 8617 del 3/4/2017), per evitare di turbare la inviolabilità della famiglia matrimoniale. D’altro canto, i Giudici di legittimità, sulla scia delle puntualizzazioni precedenti della Corte Costituzionale, hanno continuato, per lungo tempo, a sostenere come il favor veritatis – nel caso dei figli naturali – non si ponesse in conflitto con il favor minoris, nel senso che la verità biologica della procreazione costituiva una componente essenziale dell’interesse del minore, che si rendeva compatibile con l’esigenza di garantire un diritto alla identità personale, quale tutela di rango costituzionale.
Un timido ripensamento, in termini di equiparazione tra i figli – legittimi e naturali – lo si ritrova nella pronuncia del n. 18140 del 10/10/2018, con cui i Giudici della Suprema Corte confermavano che: “In tema di azione di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, stante la nuova disciplina introdotta dalle riforme del 2012 e 2013 in materia di filiazione, la prova della assoluta impossibilità di concepimento non è diversa rispetto a quella che è necessario fornire per le altre azioni di stato, richiedendo il diritto vigente che sia il favor veritatis ad orientare le valutazioni da compiere in tutti i casi di accertamento o disconoscimento della filiazione”.
Osserva in proposito l’Avv. Michela Labriola: “È indubbio che l’accertamento della verità sia ispirato al principio di ordine superiore e che ogni falsa appartenenza di stato deve cadere, in quanto, nel rapporto di filiazione, è individuato un valore necessariamente da tutelare, tuttavia, non va trascurato il concreto rischio che tale verità possa causare un pregiudizio” (Avv. Michela Labriola, in “Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità: il bilanciamento tra favor veritatis e interesse del figlio”, in L’Osservatorio sul diritto di famiglia, fascicolo 2, maggio-agosto 2020).
Partendo dal presupposto del possibile pregiudizio del minore, la giurisprudenza ha fatto, quindi, un passo avanti, superate le differenze accertative tra le azioni sullo status, e ha iniziato ad interrogarsi sulla necessità di un bilanciamento tra favor veritatis ed interesse del minore. Emerge l’esigenza di un contemperamento, in quanto il superamento della finalità – propria dell’originaria impostazione legislativa – di preservare a tutti i costi lo status di figlio “legittimo”, coincide con la necessità di garantire che tutti gli accertamenti sulla paternità siano condotti col fondamentale coinvolgimento del figlio e nel suo interesse.
Su questi presupposti, le pronunce delle diverse Corti territoriali sono state maggiormente attente ad orientare le decisioni verso la tutela del superiore interesse del minore, da considerarsi preminente rispetto all’esigenza di tutela della paternità biologica (favor veritatis), anche alla luce della normativa internazionale. In tal senso, come si vedrà in seguito, l’ascolto del minore è diventato imprescindibile e obbligatorio anche nelle azioni sullo status. Sull’ascolto indispensabile del minore nei procedimenti che lo riguardano, a partire del dodicesimo anno d’età, va ribadito come sia importante assicurarsi che il minore abbia preventivamente ricevuto tutte le informazioni pertinenti, oltre che tenere in debito conto l’opinione da lui espressa. In tali procedure, infatti, è prevista la nomina del curatore speciale e il minore può ritenersi parte del giudizio.
“Le modifiche importanti, dettate dal legislatore in termini di equiparazione della condizione di figlio, obbligano ad una necessaria comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti e, in particolare, del minore, nel caso di specie destinatario degli esiti di un’azione giudiziaria alla cui proposizione è rimasto completamente estraneo, lasciando dei dubbi sul reale bisogno di questo ragazzo alla conoscenza della propria identità. … I principi giuridici, talvolta contrastanti, di identità personale e di verità genetica hanno radici che attingono linfa vitale dai sentimenti che albergano nelle famiglie” (Avv. Michela Labriola, cit.).
Va da sé che le indagini sulla vita, sulle necessità e sui bisogni del figlio sono, altresì, più complesse nel corso di giudizi in cui non si controverta sul valore della positiva relazione genitoriale con il padre legale, né è possibile compiere alcuna valutazione negativa, aprioristica, in ordine al profilo del padre biologico.
Il Tribunale di Genova, con la pronuncia n. 2172 del 25/7/2018, con un inaspettato revirement giurisprudenziale, statuiva che: “Il minore ha il diritto di vedere riconosciuto il suo effettivo status filiationis nel rispetto del diritto alle proprie origini trattandosi di un aspetto fondamentale del diritto di ogni persona alla propria identità personale”. La sentenza in commento, nell’affermare chiaramente la prevalenza del principio del favor veritatis su quello del favor minoris nell’ambito dei procedimenti di disconoscimento della paternità, richiama espressamente una precedente pronuncia della Suprema Corte (la n. 4020 del 15/2/2017), ribadendo l’importanza del legame genetico quale espressione del diritto fondamentale all’identità personale, operando così – secondo il Giudice di merito – un contemperamento degli interessi rilevanti coinvolti nella fattispecie.
Proprio il richiamo effettuato dalla sentenza alla pronuncia della Suprema Corte rende opportuno un breve accenno alle considerazioni riportate nella motivazione. In particolare la citata pronuncia si sofferma – discostandosi da alcuni precedenti – su quale sia la sede deputata alla valutazione dell’interesse del minore alla conservazione della stabilità dei rapporti familiari; interesse potenzialmente contrapposto a quello della ricerca della verità biologica.
Sul punto, la Suprema Corte rileva come l’interesse del minore alla stabilità dei rapporti familiari instaurati all’interno della cosiddetta famiglia sociale non debba essere oggetto di accertamento nella fase di merito del giudizio di disconoscimento, essendo tale valutazione rimessa alla fase – preliminare – della nomina del curatore speciale ai sensi e per gli effetti degli artt. 244 e 737 c.p.c. . Questa sarebbe, a dire della Corte, la sede destinata ad ospitare l’apprezzamento giudiziale dell’interesse del minore, nell’ambito della quale è possibile l’acquisizione di tutti i necessari elementi di valutazione. Diversamente argomentando, ritiene la Corte, l’ulteriore apprezzamento dell’interesse del minore nella fase di merito, oltre a non avere una base normativa, rappresenterebbe “un’inutile duplicazione di una indagine già compiuta e sottoposta al vaglio del Giudice ai fini della nomina del curatore speciale”.
Il Giudice di legittimità, allora, più che operare un bilanciamento tra i due principi in considerazione, sembra delimitarne, nella sentenza richiamata, il diverso ambito di operatività: mentre il principio del favor minoris assumerebbe rilievo nell’ambito del procedimento deputato alla nomina del curatore speciale, il principio del favor veritatis sarebbe destinato ad agire “come regola di giudizio” nell’ambito del procedimento di disconoscimento della paternità.
Il Tribunale di Genova – pur aderendo espressamente a quanto affermato dai Giudici di legittimità nella pronuncia espressamente richiamata nella motivazione – in realtà se ne discosta vistosamente, ritenendo apertamente di non poter prescindere dalla “opportunità di effettuare una verifica sul bilanciamento fra l’esigenza di accertare la verità biologica e l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari”, così operando, anche in sede di disconoscimento della paternità, un giudizio di contemperamento tra il favor veritatis e l’interesse del minore alla stabilità dei rapporti familiari. Traspare evidente la possibilità che l’interesse del minore alla stabilità dei rapporti familiari possa, in alcuni casi, assumere anche rilevanza preminente.
Sembrerebbe, allora, pur in un contesto motivazionale alquanto contraddittorio, che l’orientamento espresso dalla pronuncia in commento sia riconducibile non tanto alla decisione della Suprema Corte dalla stessa richiamata, quanto a un diverso orientamento consacrato proprio da alcune pronunce di legittimità, secondo le quali permarrebbe, nel giudizio di disconoscimento della paternità, la centralità del bilanciamento fra l’esigenza di affermare la verità biologica e la necessità di tutelare l’interesse del minore alla stabilità dei rapporti familiari.
Secondo tali diverse pronunce, fra le quali merita di essere citata la sentenza n. 26767 della Sezione I della Cassazione Civile del 22/12/2016, occorre sgombrare il campo dalla “suggestione che il Giudice investito della domanda proposta dal curatore speciale sia esonerato dalla valutazione della rispondenza o meno degli effetti del disconoscimento all’interesse del minore, perché già effettuata in relazione all’istanza del pubblico ministero in relazione alla nomina del curatore speciale stesso”. La Suprema Corte, con questa pronuncia, ha precisato testualmente: “Il Giudice investito della domanda di disconoscimento di paternità di un minore è tenuto ad effettuare un bilanciamento fra l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse del minore, valutando in particolare gli effetti del provvedimento richiesto in relazione alla necessità di garantire uno sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale”.
La valutazione operata in sede di nomina del curatore speciale sarebbe, infatti, insufficiente, perché risultato della semplice assunzione di “sommarie informazioni” inerenti all’opportunità o meno di procedere alla nomina del curatore speciale, vale a dire al promovimento dell’azione di disconoscimento in nome e per conto del minore. D’altro canto, i Giudici di legittimità precisano che non può ritenersi che il Giudice investito della domanda proposta dal curatore speciale sia esonerato dalla valutazione della rispondenza o meno degli effetti del disconoscimento all’interesse del minore solo perché già effettuata in relazione all’istanza del pubblico ministero per la nomina del curatore speciale stesso; questo perché il provvedimento di nomina del curatore speciale non ha carattere di definitività e decisorietà ed è, peraltro, emanato alla fine di un procedimento in cui solo il pubblico ministero assume la qualità di parte. Il bilanciamento tra gli interessi in gioco dovrebbe, allora, essere effettuato anche dal Giudice di merito, con conseguente non necessaria e scontata prevalenza, nel giudizio di disconoscimento della paternità, del valore della verità della procreazione. Una affermazione, quindi, ancora una volta, nel senso della prevalenza del principio di tutela della stabilità dei rapporti familiari.
La pronuncia del Tribunale di Genova, al di là dei riferimenti giurisprudenziali citati, sembrerebbe porsi a metà strada tra quanto affermato dai diversi orientamenti della Suprema Corte e se, da un lato, esalta il principio del favor veritatis, dall’altro non si esime dal valutare, nel caso concreto, l’interesse del minore alla conservazione del legame genitoriale già esistente, nel segno del principio per cui rimane coessenziale all’ordinamento l’esigenza di un bilanciamento di interessi. Invero, i Giudici di legittimità avevano già avuto modo di affermare come, pur a fronte di un accentuato favore per una conformità dello status alla realtà della procreazione, il favor veritatis non costituisse un valore di rilevanza costituzionale assoluta.
L’art. 30 della Carta Costituzionale non ha attribuito un valore indefettibilmente preminente alla verità biologica rispetto a quella legale, ma, nel disporre al comma 4 che “La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità”, ha demandato al legislatore ordinario il potere di privilegiare, nel rispetto degli altri valori di rango costituzionale, la paternità legale rispetto a quella biologica, nonché di fissare le condizioni e le modalità per far eventualmente valere quest’ultima, così affidandogli anche la valutazione, in via generale, della soluzione più idonea per la realizzazione dell’interesse del figlio (in termini, si può confrontare Cass. Civ., Sez. I, n. 13638 del 30/5/2013).
Sul punto, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 429 del 27/11/1991, ha chiarito che, nell’ipotesi in cui l’azione di disconoscimento venga promossa da un curatore speciale ai sensi dell’art. 244, ultimo comma, cod. civ., qualora si tratti di un minore, come nella specie, di età inferiore ai sedici anni, la ricerca della paternità, pur quando concorrono specifiche circostanze che la fanno apparire giustificata, non è ammessa ove risulti un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo o, rispettivamente, all’assunzione dello stato di figlio naturale. In realtà, proprio la centralità dell’interesse del minore nelle azioni di stato è stata più volte affermata dalla Corte Costituzionale, che, in tema, ha ripetutamente richiamato la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, nonché la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il medesimo indirizzo è seguito, poi, anche in ambito nazionale, ove l’interesse morale e materiale del minore ha assunto carattere di piena centralità, specialmente dopo la riforma introdotta con la L. 151/1975 (“Riforma del diritto di famiglia”) e dopo la riforma dell’adozione con la L. 184/1983 (“Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”).
In un panorama che sicuramente disorienta l’interlocutore e offre poche certezze, irrompe la recentissima sentenza della Corte di Cassazione che, con pronuncia n. 27140 del 6/10/2021, forse, a parere di chi scrive, ha segnato con tratto marcato un sentiero da seguire. La Suprema Corte ha ribadito, con significativa motivazione, che “In tema di disconoscimento di paternità, il quadro normativo (art. 30 Costituzione, art. 24, comma 2, Carta dei diritti fondamentali della UE, e art. 244 cod. civ.) e giurisprudenziale attuale non comporta la prevalenza del favor veritatis sul favor minoris, ma impone un bilanciamento fra il diritto all’identità personale legato all’affermazione della verità biologica – anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e dell’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini – e l’interesse alla certezza degli status ed alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggiore considerazione del diritto all’identità personale, non necessariamente correlato alla verità biologica, ma ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno di una famiglia, specie quando trattasi di un minore infraquattordicenne. Tale bilanciamento non può costituire il risultato di una valutazione astratta, occorrendo, invece, un accertamento in concreto dell’interesse superiore del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale”. Nella specie, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la decisione della Corte territoriale di merito, che, nell’accogliere l’azione di disconoscimento di paternità proposta dal padre di un minore infraquattordicenne, ha ritenuto di valorizzare esclusivamente il favor veritatis, trascurando di procedere ad un accurato bilanciamento, in concreto, di questo criterio con quello del preminente interesse del minore.
È chiaro che, nel contesto del ventaglio di interessi coinvolti nel procedimento per il disconoscimento della paternità, un ulteriore profilo di particolare interesse è proprio quello riguardante il diritto del padre alla verità biologica. La questione è stata trattata allorquando il Tribunale Ordinario di Trento ha ritenuto di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, comma 3, cod. civ., in riferimento agli artt. 3, 76 e 117, comma 1, Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU). Per il Tribunale infatti, il comma 3 del suddetto art. 263 cod. civ. è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente che, per l’autore del riconoscimento, il termine per proporre l’azione di impugnazione decorra dalla “conoscenza della non paternità”.
A tal proposito, merita ricordare che il dettato normativo di cui all’art. 263 cod. civ. – rubricato “Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità – dispone, fra l’altro, che “… L’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento”. Se un padre venisse a scoprire, quindi, anche dopo il termine (cinque anni) previsto dal suddetto articolo, che il proprio figlio non è biologicamente suo, non potrà esercitare il diritto fondamentale alla “verità biologica” perché il legislatore, nella sua discrezionalità, ha ritenuto che lo status filiationis dovesse cristallizzarsi a favore del minore, il quale, una volta raggiunta la maggiore età, potrà tranquillamente esperire tale azione che, nei suoi confronti, risulta essere imprescrittibile.
Il diritto alla verità biologica, di cui risulta essere titolare il padre rischia di affievolirsi – o forse è evidentemente affievolito – rispetto al diritto del figlio minore a mantenere lo status filiationis. Una simile disposizione, a lungo andare, potrebbe certamente mostrare un forte attrito con i principi costituzionali. O si afferma, allora, un diritto assoluto alla protezione del minore nei confronti di un padre che scopre di non essere biologicamente tale o si dovrà propendere per una soluzione certamente più ragionevole, che contempli l’idea per cui al padre spetti, in ogni caso, il diritto a rivalutare la sua posizione paterna nei confronti di un figlio che scopre “non biologico”, specie se frutto di un atto adulterino, per lungo tempo nascosto, che la norma censurata non contempla affatto.
La Corte Costituzionale (sentenza n. 133 del 25/6/2021), nel caso di specie, ha dichiarato “soltanto” l’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità, senza nulla argomentare, invece, sulla eventuale illegittimità costituzionale del termine quinquennale. “Alla luce di quanto detto, appare evidente come l’art. 263 cod. civ. debba essere riformulato secondo il dictamen fornito dalla pronuncia in commento, specie rivalutando la possibilità di intervenire sul termine quinquennale che potrebbe affievolire il diritto del padre alla verità biologica e rafforzare il diritto del minore alla conservazione dello status filiationis. Bisognerebbe, dunque, intervenire sulla disciplina del difetto di veridicità, cercando di appianare le discrepanze fattuali tra gli artt. 244 e 263 c.c.” (Remo Trezza, in “Status filiationis cristallizzato e diritto del padre alla verità biologica”, in Familia, Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa, Pacini Giuridica, 29/7/2021).
Pur avendo ritenuto infondata la questione relativa alla possibile illegittimità costituzionale del termine quinquennale, la Consulta ha osservato come la Corte EDU abbia censurato alcuni meccanismi impeditivi di azioni di impugnazione dello status filiationis, ove al legittimato non fosse imputabile l’inerzia, ma non ha ritenuto rilevante l’interpretazione fornita, osservando che il caso di specie non era correlato, in maniera inscindibile, alle fattispecie normative oggetto dei giudizi ad essa sottoposti, che si riferiscono a termini (semestrali o annuali) decisamente più brevi rispetto a quello quinquennale previsto dall’art. 263, comma 3, ultima parte, cod. civ. . La Consulta ha ritenuto preferibile l’interpretazione in base alla quale un così lungo decorso del tempo (cinque anni dal riconoscimento) radica il legame familiare e sposta il peso assiologico, nel bilanciamento attuato dalla norma, sul consolidamento dello status filiationis, in modo da giustificare che la prevalenza di tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie normativa.
In definitiva, il quadro normativo attuale, come interpretato dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalenti, sembra imporre ormai un bilanciamento fra l’esigenza di affermare la verità biologica, anche in considerazione delle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica, come sostengono i Giudici di legittimità, con l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari, nell’ambito di una sempre maggiore considerazione di quel diritto all’identità non necessariamente correlato alla verità biologica, ma, in maniera più estensiva e attuale, ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno di un nucleo familiare.
Resta sicuramente primaria l’esigenza di operare, secondo il dettato dei Giudici della Suprema Corte (in parte motiva della pronuncia n. 8617 del 3/4/2017 e della pronuncia n. 27140 del 6/10/2021), una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti e, in particolare, del minore, destinatario degli esiti di un’azione giudiziaria alla cui proposizione è rimasto completamente estraneo. Del resto, pur a fronte di un accentuato favore, come già innanzi sottolineato, per una conformità dello status alla realtà della procreazione – chiaramente espresso nel progressivo ampliamento in sede legislativa delle ipotesi di accertamento della verità biologica – è pur vero che il favor veritatis non costituisce, come già sottolineato, un valore di rilevanza costituzionale assoluta da affermarsi sempre e comunque.
La necessità di un attento e concreto bilanciamento degli interessi in rilievo è, peraltro, imposta non solo, come abbiamo visto, dalle fonti interne, ma anche da quelle sovranazionali. L’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – rubricato “Diritto al rispetto della vita privata e familiare” – al comma 2, statuisce chiaramente che l’ingerenza della pubblica autorità nella vita privata e familiare degli individui presuppone la verifica della sua necessarietà. Così come la centralità dell’interesse del minore e del conseguente giudizio di bilanciamento è confermata anche dall’art. 24, par. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. In realtà, non sembra potersi sostenere l’esistenza di un valore assoluto tra favor veritatis e favor minoris; certo il principio di affermazione della “verità” è importante, però, forse, sarebbe opportuno operare sempre, così come ci ha sapientemente suggerito l’ultimo orientamento dei Giudici di legittimità, un accertamento in concreto del superiore interesse del minore e, soprattutto, caso per caso, senza fuorvianti generalizzazioni o incasellamenti di genere.
Lo stesso superiore interesse del minore andrebbe interpretato e compreso caso per caso, atteso che potrebbe assumere aspetti diversi e dipendere da parametri e variabili differenti fra loro, quali, ad esempio, l’età del minore o il suo inserimento nell’ambiente familiare; è evidente, infatti, che il “superiore interesse” di un bambino piccolissimo sarà ben diverso da quello di un ragazzino o di un adolescente inserito e “strutturato” in un contesto familiare da cui potrebbe, in forza della azione di disconoscimento, essere violentemente sdradicato. D’altro canto, l’esaltazione dell’interesse del minore e la necessità di una sua costante “valutazione” impone una continua verifica in termini di attualità (anche nel corso di un processo o dei diversi gradi di un giudizio), soprattutto quando, a fronte di una iniziativa processuale non correlata ad alcuna esplicita volontà del minore stesso, quest’ultimo acquisisca, nel corso del procedimento, una maturità di comprensione e di determinazione rispetto alla propria identità personale.
Si tratta sicuramente di concetti e di valori “elastici” che devono essere “interpretati” concretamente nelle diverse fattispecie, anche se la mancanza, al momento, di punti fermi sulla questione, testimoniata, fra l’altro, dagli ondivaghi orientamenti giurisprudenziali richiamati, non può, secondo alcuna dottrina, che rendere auspicabile un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite (Giulia Eleonora Aresini, “Disconoscimento di paternità: quando la verità biologica prevale su quella legale”, in ilFamiliarista.it, 8/2/2019). Altra parte della dottrina ha ritenuto auspicabile “un intervento legislativo di sistema, ove si pongano in rilievo i due diritti (verità biologica e cristallizzazione dello status filiationis) e si cerchi di addivenire ad una reductio ad unum dell’identità biologico-paternale (valevole anche per la madre) … al fine di evitare una paternità imposta ed un nascondimento legale della verità biologica” (Remo Trezza, cit.).
Appare illuminante, invece, proprio l’indirizzo segnato dall’ultimo orientamento dei Giudici di legittimità che, forse nella consapevolezza della oggettiva difficoltà di ingabbiare i profili della fattispecie in esame in rigidi percorsi definitori o procedurali, con una visione particolarmente attuale e lungimirante, hanno sottolineato che il bilanciamento di interessi richiesto “non può costituire il risultato di una valutazione astratta”, ma deve rimanere il portato di un accertamento “in concreto del superiore interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione alla esigenza di un suo sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale”, sottolineando implicitamente, a parere di chi scrive, che non esiste un interesse che può ritenersi oggettivamente prevalente fra i due.
In questo senso, l’indagine demandata al Giudice sarà evidentemente complessa, soprattutto perché non potrà prescindere, da un lato, dal necessario ascolto del minore quale “attore protagonista” di un processo iniziato pur senza nessun coinvolgimento della sua volontà e, dall’altro, dall’approfondimento di quegli essenziali profili psicologici, umani, intimi e relazionali che richiederà al Giudicante significativa esperienza e spiccata sensibilità. Ma è proprio quello che si chiede al Giudicante, al di là di generalizzazioni di comodo che dovrebbero rimanere del tutto estranee nella valutazione giudiziale del merito di una azione di disconoscimento della paternità.
* Avvocato. ISP Bari