Di Gianluca Aresta *
Con una recentissima Ordinanza, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che: “Qualora un figlio minore, divenuto ormai adolescente e perfettamente consapevole dei propri sentimenti e delle motivazioni, provi nei confronti del genitore non affidatario sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa, a tal punto radicati da doversi escludere che possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di strutture sociali e psicopedagogiche, è giustificata anche la totale sospensione degli incontri tra il minore stesso e il genitore non affidatario” (Ordinanza n. 21969 del 5/8/2024). La pronuncia dei Giudici di legittimità offre l’opportunità di svolgere alcune riflessioni in ordine alla problematica, di immediato interesse nella quotidianità anche processuale, relativa al rapporto fra la tutela del diritto alla (bi)genitorialità e il preminente interesse del minore a non patire situazioni che ne possano compromettere gravemente la stabilità psichica e lo sviluppo futuro.
Nel corso di una separazione non sono solo i rapporti tra i coniugi a subire trasformazioni, ma anche i rapporti fra i genitori e i figli. E può, purtroppo, accadere che questo cambiamento critico avvenga in senso disgregativo, a volte investendo il genitore non collocatario (prevalentemente il padre) in modo particolarmente traumatico, mettendolo di fronte al rifiuto del figlio di trascorrere del tempo con lui o, nei casi più gravi, di vivere il rapporto figlio/genitore.
Infatti, il minore, già nella fase della preadolescenza o ormai adolescente, “ha diritto” di rifiutare la relazione col genitore non affidatario verso cui prova “sentimenti di avversione o, addirittura, di ripulsa” afferma la Suprema Corte, e il Giudice, nel preminente interesse del minore, può conseguentemente disporre la totale sospensione degli incontri genitore/figlio.
Affermano i Giudici di legittimità – con l’ordinanza citata – che il Giudice della separazione è chiamato a valutare se il “mantenimento del diritto di visita sia idoneo o meno a superare i sentimenti negativi nei confronti del genitore o se ciò invece possa condurre a radicalizzarli”. In tale seconda ipotesi, la scelta di sospendere la relazione figlio/genitore sarebbe direttamente collegata all’esercizio del diritto del minore, come vedremo in seguito, a essere ascoltato per comprendere quello che lo fa sentire “in equilibrio”: una situazione – questa – che, di fatto, comprime il diritto alla (bi)genitorialità, ma resta a tutela del supremo interesse del minore stesso.
Nel giudizio sui diritti di genitore non collocatario e figlio che si vengano a trovare in situazione di contrapposizione, affermano i Giudici di legittimità, “a nulla rileva quale sia stata l’origine della manifestata avversione …” e questa è, forse, la parte più interessante (o più problematica) della pronuncia della Suprema Corte, soprattutto per le conseguenze interpretative (e applicative) che potrebbe generare. Quindi, anche se, come nel caso in esame, si attribuisca all’altro genitore la colpa di aver indotto tali sentimenti negativi nel figlio, quest’ultimo ha diritto a “vedere rispettata” la condizione psicologica in cui di fatto versa. E nessun Giudice, afferma ancora la Suprema Corte, può ritenere insuperabile la genitorialità, al punto da imporla a un figlio che cerchi, invece, di evitarla in quanto il proprio genitore genera in lui “ansia e paura”. È evidente, però, che, al fine di operare tale valutazione, l’ascolto diretto del minore preadolescente o già adolescente è fondamentale, in quanto, in base al grado di maturità raggiunto, egli può bene esprimere quel disagio da cui desidera essere protetto e allontanato.
Nel caso in questione, dopo un’iniziale separazione durante la quale – secondo il padre ricorrente – le difficoltà emotive del figlio a mantenere una relazione con lui andavano attribuite al comportamento della madre, era intervenuto l’affidamento familiare del minore agli zii paterni e il diritto di visita del padre era stato sospeso e l’affidamento ulteriormente prorogato. Con il ricorso proposto il padre, genitore non affidatario, intendeva contestare proprio l’illegittima lesione del diritto alla genitorialità e al suo mantenimento nonostante fosse intervenuta separazione tra i genitori, richiamando, a sostegno della domanda per la affermazione dei diritti fondamentali violati anche convenzioni e normative internazionali.
La Cassazione, come sottolineato, statuiva, però, che resta preminente il diritto del minore al proprio sviluppo, in presenza di situazioni da cui possa originare l’aggravamento di uno stato psicopatologico legato alla relazione col proprio genitore. È evidente, pertanto, che con la ordinanza n. 21969/2024 la Corte di Cassazione ha sacralizzato il principio della non coercibilità del diritto di visita figlio/genitore (così come aveva già sacralizzato la non coercibilità della relazione affettiva genitore/figlio), la cui lesione è tutelata esclusivamente in via obbligatoria.
La nota particolarmente “dolente” riposa, come detto, in un passaggio della motivazione, laddove si legge che il minore può sì essere ascoltato per comprendere ciò che lo fa sentire in equilibrio, o ciò da cui vorrebbe essere “protetto”, a nulla rilevando, però, l’origine del malessere. Statuisce, infatti, testualmente la Suprema Corte che: “Tale sospensione può essere disposta indipendentemente dalle eventuali responsabilità di ciascuno dei genitori rispetto all’atteggiamento del figlio, ed indipendentemente anche dalla fondatezza delle motivazioni addotte da quest’ultimo per giustificare detti sentimenti, dei quali vanno solo valutate la profondità e l’intensità, al fine di prevedere se disporre il prosieguo degli incontri con il genitore avversato potrebbe portare ad un superamento senza gravi traumi psichici della sua animosità iniziale ovvero ad una dannosa radicalizzazione della stessa (Cass. Civ., Sex. I, n. 317 del 15/1/1998; Cass. Civ., Sez. I., n. 6312 del 22/6/1999)”. Assai spesso, invero, nei casi di rifiuto del minore ad incontrare un genitore, questi imputa il rifiuto alla presunta manipolazione da parte dell’altro genitore, invocando l’applicazione di misure dissuasive e sanzionatorie (Cass. Civ., Sez. I, n. 27207 del 23/9/2019).
Il tema, come si può ben immaginare, è estremamente delicato e, a tratti, pericolosamente scivoloso: possono esserci casi in cui un genitore (la madre, solitamente) condiziona volontariamente la volontà del figlio mediante un’opera denigratoria dell’altra figura genitoriale, altri, più frequenti, in cui la manipolazione è assolutamente inconsapevole, altri in cui il genitore a scopo protettivo semplicemente asseconda la volontà del figlio di non incontrare l’altro genitore (solitamente il padre) che sia stato artefice di maltrattamenti, fisici o psicologici, o che si sia sempre disinteressato del figlio, che finisce col percepire il genitore completamente estraneo, talora addirittura imputando a sé stesso le ragioni della noncuranza paterna.
Se il principio dell’indifferenza rispetto alla origine del malessere del minore, enucleato dalla Suprema Corte, si affermasse come consolidato, immune da filtri quali una adeguata valutazione, prodromica a qualsiasi decisione, delle effettive cause del “rifiuto” del minore, si rischierebbe di legittimare comportamenti “tossici” che si riversano (come già accade) nel tessuto sociale e che risulterebbero, purtroppo, legittimati da principi emergenti, in maniera granitica, della giurisprudenza di legittimità, soprattutto se mal percepiti, mal interpretati o strategicamente votati ai propri fini dai soggetti protagonisti del momento disgregativo della famiglia o dagli operatori del diritto.
Gli stessi operatori del diritto (di famiglia) dovrebbero sempre (cercare di) convergere su soluzioni ragionevoli, potenzialmente idonee ad arginare una deriva molto pericolosa per il nostro tessuto sociale, soprattutto all’esito di pronunce della giurisprudenza di legittimità, come quella esaminata, che richiedono una lettura non superficiale proprio al fine di non generare interpretazioni deviate e pericolosamente fuorvianti.
In realtà, le problematiche prodromiche a un rifiuto genitoriale dovrebbero essere sempre adeguatamente indagate e approfondite e, una volta individuate, affrontate attraverso soluzioni anche coraggiose, anche in ragione della circostanza per cui, diversamente, l’assecondare un rifiuto del minore del genitore non collocatario, senza prima averne indagato adeguatamente le ragioni e risolto i presupposti, porterebbe sicuramente ad una definitiva e irreversibile disgregazione del rapporto genitore (padre)/figlio.
È appena il caso di rimarcare che il rifiuto del minore adolescente di trascorrere del tempo col genitore (non collocatario) non può (e non deve) mai essere imposto, o anche soltanto “indotto”, dal genitore collocatario. Il principio di bigenitorialità, ossia il diritto del figlio di vivere con la presenza e il supporto di entrambi i genitori, è tutelato dalla legge, nell’interesse dello stesso minore. La Suprema Corte (con l’ordinanza n. 13400 del 17/5/2019) aveva chiaramente statuito che né il padre, né la madre devono allontanare il figlio dall’altro genitore, pena il “risarcimento del danno all’ex coniuge”.
Quali sono, allora, i rimedi per un genitore non collocatario di fronte al rifiuto del proprio figlio minore di trascorrere del tempo con lui o di vivere il rapporto figlio/genitore? Egli può sicuramente richiedere l’intervento dei servizi sociali per cercare di ristabilire il rapporto affettivo col proprio figlio. Prima della decisione, il Tribunale può disporre una consulenza tecnica (di solito con uno specialista di fiducia, psicologo o neuropsichiatria infantile), per verificare le motivazioni del rifiuto del minore, del suo malessere, siano esse personali o dovute all’influenza dell’altro genitore o a un trauma dovuto alla separazione. Dopo la consulenza, il Tribunale adotterà le misure necessarie per preservare lo sviluppo psicofisico del minore e il rapporto con il genitore non collocatario.
Non si deve dimenticare che il rifiuto del minore è, innanzitutto, un rifiuto affettivo, ma in ogni caso, non sono (o non dovrebbero essere) ammesse forzature nei confronti del figlio che non vuole frequentare uno dei genitori, semmai si deve comprenderne profondamente e intimamente le ragioni.
Sul punto, il Tribunale di Torino, con Decreto del 4/4/2016, in linea con la già affermata interpretazione della Corte di Cassazione e con le pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, stabiliva che la “coercizione” deve essere usata con “prudenza”, tenendo sempre conto degli interessi superiori del minore. Pertanto, se un figlio rifiuta di vedere un genitore, neanche il Tribunale potrebbe obbligarlo alle visite. Lo stesso Tribunale statuiva che “L’individuazione delle concrete modalità del regime di visita deve sempre avvenire avendo come parametro principale di riferimento l’interesse superiore del minore e non può prescindere dalla considerazione delle specifiche circostanze del caso concreto e, in particolare, dell’età del figlio minore”.
In particolare, è noto come la stessa Corte di Strasburgo abbia avuto modo di precisare che la coercizione per il raggiungimento dell’obiettivo di mantenimento del legame famigliare deve essere utilizzata con estrema prudenza e misura e deve tenere conto degli interessi, dei diritti e delle libertà delle persone coinvolte e in particolare dell’interesse superiore del minore (cfr. CEDU V./Rep. Ceca del 29/6/2004, § 118).
Nel caso sottoposto alla attenzione dei Giudici del Tribunale di Torino, una ragazza minore di quindici anni esprimeva la propria posizione in modo “netto e chiaro” e il Tribunale, in primo grado, riteneva che “provvedimenti impositivi di rapporti, visite e incontri, eventualmente preceduti da una consulenza tecnica d’ufficio parimenti imposta, non rispondano all’interesse superiore del minore ad una effettiva e proficua bigenitorialità e ad una crescita serena ed equilibrata né siano concretamente funzionali all’attuazione di quel diritto del genitore al mantenimento del legame con i figli”, risultando, anzi, in quanto imposti e non frutto di una spontanea rielaborazione relazionale, controproducenti e pregiudizievoli al recupero di una serena relazione padre/figlia, nonché al benessere stesso della minore, cui il Tribunale sempre deve tendere nel processo di adozione delle proprie decisioni.
È interessante rilevare come, per le medesime ragioni, i Giudici ritenevano che l’istanza di CTU non potesse essere accolta, non potendosi demandare al CTU l’accertamento di quei motivi di interruzione dei rapporti padre/figlia che il ricorrente poneva a fondamento della propria domanda di condanna della convenuta (madre genitore collocatario) alle sanzioni di cui all’art. 709 ter c.p.c., in quanto si sarebbe demandato al CTU il compito di individuare i fatti a sostegno della domanda del ricorrente, supplendo alle sue carenze di allegazione.
Alla luce della situazione di fatto, dell’età della minore e delle sue dichiarazioni rese in udienza, nonché della già esposta inopportunità di una imposizione di incontri padre-figlia, i Giudici ritenevano doversi accogliere la domanda della parte convenuta (madre genitore collocatario) di prevedere incontri padre/figlia “secondo il gradimento della minore”, affinché venisse rimessa alla spontanea evoluzione relazionale delle parti e della minore il recupero, “senza costrizioni e nei tempi e nei modi ritenuti congrui dagli interessati”, di un sereno e continuativo rapporto tra il ricorrente e la figlia. Al fine di agevolare il recupero di tale relazione e l’attuazione effettiva del principio della bigenitorialità, il Tribunale invitava le parti ad intraprendere un percorso di rafforzamento delle proprie capacità genitoriali e/o un percorso di mediazione familiare, nell’interesse esclusivo della minore, e incaricava i Servizi competenti di prendere in carico la minore e di facilitare il recupero e il mantenimento del legame familiare.
La Corte di Cassazione ha affermato, nel tempo, che “i rapporti affettivi non possono essere imposti” (visto che per loro natura sono incoercibili) e le istituzioni devono favorire, tramite i servizi sociali, una normalizzazione dei rapporti: se il figlio non vuole vedere il padre, non può essere obbligato, ma il Giudice potrebbe (in realtà, dovrebbe) esortare il genitore collocatario a facilitare gli incontri o una riconciliazione o, comunque, per lo meno a farsi parte diligente per favorire una ripresa dei rapporti fra il minore e il genitore non collocatario, al fine di ricostituire il legame famigliare compromesso. Sul punto la CEDU (sentenza del 23/2/2017, ricorso n. 64297/12 D’Alconzo/Italia) ha statuito che “… una mancanza di collaborazione tra i genitori separati non può dispensare le autorità competenti dal mettere in atto tutti i mezzi che possano permettere il mantenimento del legame famigliare”. In alcune situazioni, tuttavia, il rifiuto del minore è così forte che il diritto di visita, pur previsto nell’interesse del minore, non può essere forzato.
La Corte di Cassazione, già con la sentenza n. 20107 del 7/10/2016, suggeriva un “avvicinamento graduale” figlio/genitore con l’assistenza di uno psicologo infantile per giungere alla risoluzione del conflitto. In particolare, in tale occasione la Corte rilevava che un riavvicinamento poteva avvenire “solo” su iniziativa spontanea della ragazza, rigettando il ricorso del padre, affermando, così, una accezione negativa dell’esercizio del diritto della minore alla bigenitorialità, nel senso che il minore capace di discernimento può legittimamente scegliere di non conservare una relazione continuativa con un genitore.
Diversa, chiaramente, è la situazione dei figli maggiorenni che hanno il pieno diritto di decidere autonomamente delle loro vite: il Tribunale non può obbligarli a vedere il genitore non collocatario, in quanto possono anche scegliere di vivere da soli, continuando a ricevere “solo” il mantenimento dai genitori, fino alla loro indipendenza economica.
Se il figlio minore non vuole incontrare il padre (o trascorrere del tempo con lui) non può essere obbligato; il Giudice però, potrà stimolare il genitore collocatario a favorire gli incontri o una riconciliazione tra l’altro genitore e il figlio, in modo da favorire un riavvicinamento fra il minore e il genitore non collocatario. Il genitore non collocatario, però, potrà, qualora non riesca a concordare modalità in autonomia con l’altro genitore, proporre ricorso per sollecitare l’intervento dei servizi sociali per favorire il recupero del rapporto affettivo.
Prima della decisione, è possibile che il Tribunale disponga, come detto, una consulenza psicologica sul minore per verificare se le ragioni del suo rifiuto sono dovute a motivi personali (come i trascorsi tra padre e figlio) o se sono dovute all’influenza della madre o anche ad un comune trauma da separazione. All’esito della consulenza tecnica, il Tribunale adotterà tutte le misure necessarie per preservare lo sviluppo psicofisico del minore e parimenti conservare il rapporto fra figlio e genitore non collocatario.
Nel caso di specie, relativo alla Ordinanza da cui abbiamo mosso l’incipit delle nostre considerazioni, il genitore non collocatario (padre) presentava ricorso in Cassazione fondato su una presunta negazione della figura paterna: rilevava che la Corte d’Appello non aveva tenuto conto di alcuni comportamenti ostativi della sua ex moglie, nonché madre di sua figlia, incompatibili con un progetto di recupero del rapporto padre/figlia. L’ex moglie veniva colpevolizzata per l’interruzione di tale rapporto, ma, in realtà, tale interruzione era voluta solo dalla figlia allora quindicenne. La ragazza per giustificare la sua posizione aveva riferito ai servizi sociali di “sentirsi ferita dalla poca attenzione dedicatale dal padre che, in questi anni, si era limitato a mandarle alcuni sms ed a farle sporadiche telefonate”. In seguito a queste dichiarazioni, i Giudici ritenevano che un possibile riavvicinamento con il padre poteva avvenire solo su iniziativa spontanea da parte della ragazza e non derivante dall’obbligo imposto da magistrati e servizi sociali.
Alla luce della recente statuizione della Suprema Corte, il diritto del genitore alla frequentazione del figlio minore dopo la disgregazione del contesto familiare cede il passo al diritto di non incontrarlo di cui è portatore il figlio che nutra per il genitore un sentimento di forte avversione o repulsione, allorché tale sentimento sia maturato autonomamente da un soggetto capace di analizzare con lucidità gli eventi e i comportamenti del genitore.
È recente l’orientamento della giurisprudenza di legittimità a tenore del quale il diritto alla bigenitorialità è anzitutto un diritto del minore, prima ancora che dei genitori, e dev’essere, quindi, necessariamente declinato attraverso modalità concrete dirette a realizzare in primis il superiore interesse del minore; il diritto del singolo genitore a consolidare rapporti continuativi e significativi con il figlio minore assume, quindi, carattere recessivo ove l’interesse del minore stesso non sia garantito nella fattispecie concreta (Cass. Civ., ord. n. 9691 del 22/3/2022). Non è la prima volta, del resto, come innanzi illustrato, che la Cassazione si esprime in tal senso, consolidando il principio per cui nel bilanciamento tra diritti diversi, quello della tutela della bigenitorialità, da un lato, e della crescita serena ed equilibrata del minore e, quindi, del suo superiore interesse, dall’altro, prevale sempre il secondo.
Il minore, è vero, ha diritto a mantenere rapporti con entrambi i genitori, la cui conservazione risponde al suo interesse morale e materiale, come ha rimarcato anche la CEDU sancendo il principio per cui il diritto alla vita familiare dei figli è costituito dalla reciproca presenza, dalla continuità e dalla stabilità di relazione tra genitori e figli (CEDU, Improta/Italia, ricorso n. 66396/14, sentenza del 4/5/2017). Il diritto alla bigenitorialità, però, non è un diritto assoluto e incontra un limite nella tutela suprema dell’interesse superiore del minore e nel benessere di quest’ultimo: esso non può spingersi oltre il rifiuto del minore alla frequentazione del genitore non collocatario.
Ogni provvedimento giudiziale riguardante i figli minori deve avere come esclusivo riferimento l’interesse morale e materiale della prole, principio consacrato, sin dal 1989, nella Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia, in particolare dall’art. 3 e dall’art. 9, a norma del quale gli Stati devono rispettare il diritto del fanciullo di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diritti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia contrario al suo preminente interesse.
L’interesse del minore si sostanzia, pertanto, anche nella facoltà dello stesso di poter liberamente esprimere la propria opinione in ogni questione che lo riguardi (art. 12 Conv. di New York del 1989) e, conseguentemente, nel rispetto di detta opinione sempre in considerazione della sua età e del suo grado di discernimento. Il Giudice deve quindi attribuire la giusta valenza al consenso o al rifiuto del minore alla frequentazione del genitore non affidatario, purché si tratti di un’opinione espressa consapevolmente e non inficiata da interferenze esterne. Naturalmente il minore non è in grado di manifestare una volontà consapevole ad ogni età, essendo sempre rilevante il grado di discernimento del ragazzo, pertanto, nella quotidianità pratica, viene validamente considerata l’opinione del preadolescente e dell’adolescente, quindi del ragazzo di età superiore ai dodici anni.
La pronuncia della Suprema Corte ci porta a riflettere ancora una volta su un principio assoluto: l’incoercibilità di un rapporto affettivo. Così come non si può costringere un genitore ad essere padre o madre, così non si può costringere un minore ad “essere figlio”, ad incontrare un genitore, a trascorrere del tempo con lui; costringere un adolescente ad incontrare un genitore o a trascorrere del tempo con lui, di fronte a un suo radicato rifiuto, non avrebbe alcun senso e non produrrebbe sicuramente effetti positivi, anzi forse sarebbe controproducente, perché la coercizione porterebbe semplicemente alla perdita di serenità del minore, precludendo, così, ogni seppur minima possibilità di recupero di un rapporto intimo e personale già tristemente compromesso.
L’esecuzione forzata di un diritto personale qual è quello di visita non è “umanamente” percorribile essendo i rapporti affettivi incoercibili, come ci ha detto più volte la Corte di Cassazione. Però, a parere di chi scrive, l’indifferenza rispetto alle cause del malessere interiore di un figlio minore che lo porta a rifiutare il rapporto con il genitore non collocatario (padre) non può e non deve essere prospettato astrattamente come principio, perché solo un percorso propedeutico di “avvicinamento” da parte dei servizi sociali, un percorso di indagine psicologica sul minore (attraverso perizie psicologiche) sulle reali cause del suo rifiuto che permetta allo stesso di “esternare” le cause più intime e nascoste della propria decisione e del proprio malessere, un percorso che aiuti a capire (o meglio a far emergere) i “perché” del rifiuto, potrebbe oggettivamente condurre, extrema ratio, ad una (triste) accettazione della tranciante e risolutiva determinazione del minore.
In tale contesto, una variabile imprescindibile è il tempo, l’immediatezza della reazione del sistema al rifiuto del figlio minore, la rapidità nella adozione delle misure ritenute più idonee a salvaguardare (o ripristinare) il legame famigliare fra genitore non collocatario e figlio minore, perché, come sottolineato dalla CEDU, “… sono necessarie una diligenza e una rapidità supplementari nell’adozione di una decisione riguardante i diritti sanciti dall’articolo 8 della Convenzione. … la posta in gioco della procedura per il ricorrente esige un trattamento urgente, in quanto il passare del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il figlio e il genitore non convivente. L’interruzione del contatto con un figlio molto giovane può comportare un peggioramento della sua relazione con il genitore”, sottolineando che “l’adeguatezza di una misura si valuta in base alla rapidità della sua attuazione” (Piazzi/Italia, ricorso n. 36168/09, § 58, del 2/11/2010).
Particolare rilevanza assume, allora, l’ascolto del minore – ormai principio generale invalicabile, consacrato sia da norme di diritto interno, sia di diritto sovranazionale (art. 12 Conv. ONU sui Diritti del fanciullo del 1989, artt. 3 e 10 della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del minore del 1996) – perché la volontà del figlio minore andrà manifestata anche davanti al Giudice, per far valere il proprio diritto a non frequentare uno o entrambi i genitori in sede giudiziale.
È evidente che (purtroppo) quando (si sia accertato che) la volontà del figlio è fortemente radicata e sia stato validamente esperito ogni più opportuno tentativo di riavvicinamento, anche eventualmente organizzando incontri protetti, una forzatura della frequentazione (e del rapporto) genitore/figlio, attraverso interventi autoritari, rischierebbe soltanto di frantumare definitivamente un rapporto già in nuce compromesso.
Solo la libera e spontanea volontà del figlio di ripristinare un rapporto personale ed emotivo di comunicazione mirato a un riavvicinamento può contribuire alla sua crescita serena e, in tal senso, il genitore rifiutato dovrebbe investire il massimo impegno, accogliendo e non forzando, lasciando percepire al figlio la piena disponibilità e, se del caso, anche riconoscendo espressamente l’incidenza negativa, rispetto al distacco relazionale, di eventuali suoi atteggiamenti pregressi. Nel nostro ordinamento, in realtà, è il dettato normativo di cui all’art. 473 bis 4, 5 e 6 – rubricato “Rifiuto del minore a incontrare il genitore” – che stabilisce la deroga espressa al principio della bigenitorialità nel caso di relazioni patologiche.
In tali casi occorre procedere all’ascolto immediato del minore, assumendo anche sommarie informazioni sulle ragioni del rifiuto, atteso che il rifiuto di incontrare un genitore esprime chiaramente un disagio profondo e che, in taluni casi che potrebbero essere positivamente risolvibili, il ritardo rischia, come innanzi sottolineato, di cristallizzare il rifiuto. La norma, la cui ratio originativa risiede proprio nella protezione del minore anche attraverso un eventuale ripristino della relazione genitore/figlio, prevede anche la possibilità della abbreviazione dei termini processuali al fine di garantire una tutela immediata nel caso in cui il minore sia esposto a un pericolo psico-fisico.
Come hanno rilevato i Giudici di legittimità, è “la profondità e l’intensità del sentimento di rifiuto espresso del minore” che rileva (e che dovrà essere indagata, senza tralasciare le cause del malessere interiore del minore), la sua condizione psicologica, pur se spesso contraddistinta da “ansia e paura”, che dovrà guidare la scelta del Giudice all’esito, sia consentito ribadirlo, di un imprescindibile, adeguato, approfondito e delicato processo di indagine.
Perché non accada che quel minore, in età ormai adulta, voltandosi indietro, debba interrogarsi sui motivi di quel vulnus affettivo causato dalla assenza (o meglio dalla mancanza), nel suo percorso di vita, di quella figura genitoriale che lui stesso, in età adolescenziale, aveva contribuito a rifiutare, senza che nessuno gli tendesse una mano per comprendere i motivi di quel malessere, salvaguardando una relazione essenziale per la sua crescita serena. Senza mai dimenticare, oltretutto, che quel principio di bigenitorialità, ormai affermatosi come uno dei cardini nel nostro ordinamento, resta pur sempre un principio orientato (anch’esso) alla affermazione del superiore e preminente interesse del minore.
- Avvocato, ISP Bari