Come accennato nell’Editoriale di questo stesso numero, il 29 maggio 2020 il Ministro della Salute, Roberto Speranza ha risposto ad una interrogazione parlamentare, la n. 4-02405, della sen. Valeria Valente, del PD, riguardante la PAS (Parental Alienation Syndrome), ovvero quella serie di comportamenti – ostilità, accuse, denigrazioni, rifiuto – manifestati immotivatamente da un minore nei confronti di un genitore e indotti dall’altro genitore. La sua risposta è stata letta pro domo sua tanto dai sostenitori della esistenza della PAS quanto dai negazionisti.
Come è stato possibile? Semplice: gli uni e gli altri si sono riferiti ad aspetti diversi dello stesso argomento, che ormai da molti anni fomenta polemiche a nostro avviso abbastanza inutili. Vediamo da vicino la risposta del Ministro Speranza. Dopo alcuni accenni (critici) al lavoro di Richard Gardner, lo studioso americano che formulò la PAS, egli osserva il mancato inserimento della “sindrome” nelle classificazioni scientifiche quali l’ICD 10 (International Classification of Diseases” e il DSM 5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) “in ragione” – afferma – “della sua evidente ‘ascientificità’ dovuta alla mancanza di dati a sostegno”. Speranza si appoggia poi alle “Società scientifiche di psichiatria italiana”, le quali “oltre a non riconoscere tale disturbo come patologia, non ritengono giustificati interventi terapeutici specifici”. Si parla ancora di “uso improprio della PAS” in ambito giudiziario e si ricorda che già nel 2012 lo stesso Ministero puntualizzò la “non attendibilità” della PAS.
Pollice verso, dunque, per la sindrome da alienazione parentale? Sì, ma solo come disturbo psicopatologico, ovvero per quanto attiene alla definizione di “sindrome”. Infatti, il Ministro afferma poi che la PAS non è stata inserita nel DSM 5 “in quanto si è ritenuto che l’esclusione e l’alienazione di un genitore (di cui quindi non si nega la possibile esistenza, ndr) non corrisponda ad una sindrome, né ad un disturbo psichico individuale definito, ma piuttosto a un disturbo della relazione tra più soggetti, una relazione disfunzionale alla quale contribuiscono il genitore alienante, quello alienato e il figlio/la figlia, ciascuno con le proprie responsabilità e con il proprio ‘contributo’, che può variare di caso in caso”. Secondo il comunicato del Ministero, ciò che gli “studiosi” ritengono scientificamente infondato è il riferimento a una “sindrome”, ossia ad una “costellazione di sintomi che caratterizzano il disagio di un bambino conteso durante una causa di affidamento”.
Peraltro la comunità scientifica – riporta sempre la risposta con la firma del Ministro – sembrerebbe concorde nel ritenere che l’alienazione di un genitore (si ripete l’uso del termine “alienazione”, che quindi non viene disconosciuta) “non rappresenti, di per sé, un disturbo individuale a carico del figlio, ma un grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicologico e affettivo del minore stesso”. Nozione che – informa lo stesso Ministero – compare nel DSM IV tra i “Problemi Relazionali Genitori – Figlio” e nel DSM V all’interno dei “Problemi correlati all’allevamento dei figli”. Sembra quindi – osserva il documento ministeriale – che la PAS “sia meglio definita come un ‘Disturbo del comportamento relazionale’ e non come una sindrome”.
La risposta del Ministro Speranza conclude auspicando “ulteriori studi sistematici e su larga scala dell’alienazione dei genitori” (ancora il termine “alienazione”…) “(…) allo scopo di definire criteri diagnostici oggettivi adeguati per una diagnosi scrupolosa ed un trattamento valido”.
Che considerazioni trarre da questo comunicato? Forse possiamo sintetizzarle così: rimane controversa la questione se si possa parlare di “sindrome” in senso clinico a proposito dei segnali (non uso volutamente il termine “sintomi”) manifestati da un minore in occasione di una separazione dei genitori. Rimane dubbia la scientificità della costruzione elaborata da Gardner. A questo punto andiamo pure oltre e ipotizziamo che la PAS non sia sindrome e non abbia alcun crisma scientifico, mentre appare plausibile che si tratti di un “disturbo del comportamento relazionale”. Ora, cambia qualcosa ai fini del danno – indubbio e ingiusto – subito dal minore che comunque si travi a vivere queste condizioni? Scompare forse, o si riduce, quel “grave fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicologico e affettivo del minore” considerato dallo stesso Ministero della salute? Naturalmente no! E allora le polemiche ci paiono irrilevanti, perché si sviluppano attorno – ditelo come volete – alla forma, terminologia, definizione, tassonomia… e trascurano la sostanza. Noi crediamo che a un genitore alienato (e ancor più a un minore alienato) non interessi granché se quei comportamenti sono o non sono “sindrome” da un punto di vista medico e se questa sia o no acclarata scientificamente. Interessa che cessi quel comportamento alienante (il termine, ormai, possiamo usarlo) che è oggettivamente posto in essere e che siano adottati i provvedimenti più celeri e idonei per ristabilire un rapporto compromesso fra il genitore alienato e il figlio. L’unica conseguenza concreta che ci viene in mente se si decide (si deciderà mai…?) la inesistenza della PAS come sindrome e come disturbo psicopatologico, ma se ne ammette l’esistenza come “problema relazionale” nell’”allevamento dei figli”, per lo “sviluppo psicologico e affettivo” del minore, è che il perito eventualmente nominato dal Tribunale non sarà un medico psichiatra, ma uno psicologo dello sviluppo, un terapeuta della famiglia o altra figura analoga. Il quale ovviamente non potrà prescrivere eventuali farmaci, cosa che non credo assolutamente rilevante ai fini del problema.
Tutto questo lo abbiamo detto più volte e ci pare rispondere perfettamente a quanto affermò con molta chiarezza e pari buonsenso la Corte di Cassazione nel 2016, con la sentenza 2919: non compete alla Corte “esprimere giudizi sulla validità o invalidità di teorie scientifiche”, ma spetta ai giudici di merito “l’obbligo di verificare, in concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore”.
M. Q.