Con una recentissima ordinanza (ord. n. 19069 del 11 luglio 2024) la I Sezione della Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del problema del pernottamento del figlio minore con il genitore non collocatario, nel caso specifico con il padre, sancendo un principio che, agli occhi di molti, è risultato un vero e proprio voltafaccia (o revirement giurisprudenziale, come ormai si usa dire) dei Giudici di legittimità sull’argomento rispetto all’ultimo orientamento consolidatosi.
Il caso in esame riguardava l’affidamento di un minore nato nel 2020 dalla relazione tra due ex coniugi. I Giudici di merito in primo grado (Tribunale Ordinario di Macerata) avevano originariamente stabilito un affidamento condiviso per il minore, con collocazione presso la madre e un contributo mensile di mantenimento di centocinquanta euro da parte del padre, suggerendo, peraltro, a entrambi i genitori di partecipare a un percorso di aiuto alla genitorialità.
La madre presentava reclamo alla Corte d’Appello di Ancona, che, con decreto n. 654/2022, pubblicato in data 26/7/2022 riformava parzialmente la decisione dei Giudici di primo grado e, ritenendo “eccessivamente prolungato” (!) il periodo di permanenza settimanale con il padre, statuiva, in considerazione dell’età del minore (poco più di due anni all’epoca del giudizio di impugnazione), che: “… il padre, fino al compimento del terzo anno di età del minore, potrà tenere con sé il figlio due pomeriggi alla settimana dalle ore 16.00 alle ore 20.30, da concordare fra le parti, o in mancanza, da individuarsi nei giorni di martedì e giovedì, nonché alternativamente il sabato pomeriggio, dalle ore 16.00 alle ore 20.30, o la domenica dalle ore 9.30 alle ore 20.30; il padre provvederà, inoltre, anche a riportare il figlio presso l’abitazione materna ove è collocato; nel periodo estivo il padre potrà tenere con sé il figlio, anche per due settimane non consecutive, senza pernottamento; durante le festività natalizie il minore rimarrà con ciascun genitore per pari periodi, senza pernottamento presso il padre; inoltre il padre potrà alternativamente tenere con sé il figlio il giorno di Natale o di S. Stefano e l’ultimo dell’anno o il primo dell’anno e, ad anni alterni, il giorno dell’Epifania; durante le festività pasquali potrà tenere alternativamente con sé il figlio il giorno di Pasqua o quello del Lunedì dell’Angelo; dopo il compimento del terzo anno di età del minore la suindicata disciplina verrà integrata con un pernottamento infrasettimanale e uno nel fine settimana in cui il minore rimane con il padre, nonché nei periodi consecutivi delle vacanze natalizie e del periodo estivo”. I giudici della Corte d’appello, come si legge, precisavano che durante il periodo estivo e le festività il tempo trascorso con il padre avrebbe subito precise (e predeterminate) limitazioni.
Il padre del minore riteneva di sottoporre la questione alla attenzione della Corte di Cassazione, asserendo la violazione del principio della bigenitorialità a discapito del minore, tanto da impedirgli una crescita armoniosa, sottolineando come le modalità di visita (pre)stabilite dalla Corte di merito non permettessero di preservare adeguatamente la relazione genitoriale, soprattutto a causa dell’assenza di pernottamenti presso l’abitazione paterna, e fossero pregiudizievoli per il minore, e contestando la mancata valutazione della distanza significativa tra le abitazioni dei genitori, che avrebbe reso difficili le visite, trasformandole in semplici spostamenti, e l’incremento del contributo al mantenimento.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza succitata, ha respinto il ricorso presentato dal padre contro il decreto della Corte d’Appello di Ancona riguardante l’affidamento del figlio minore. Nello specifico, la Cassazione ha giudicato inammissibili i motivi del ricorso proposto dal padre, poiché le critiche sollevate non avevano affrontato adeguatamente le motivazioni del provvedimento impugnato. I Giudici ermellini hanno rilevato che le decisioni assunte dalla Corte d’Appello erano basate sulla “giovane età” del bambino, tali da garantire, comunque, al padre tempi di visita “appropriati”. Inoltre, le lamentele riguardanti la distanza tra le abitazioni dei genitori e l’aumento del contributo al mantenimento erano considerate infondate, in quanto non lesive di una violazione del diritto di visita. Pertanto, la Suprema Corte, nel ritenere il ricorso inammissibile, confermava le decisioni della Corte d’Appello, a tutela, a suo dire, dell’interesse superiore del minore.
Il principio affermato dai Giudici di legittimità è che “Non c’è un’applicazione rigida in termini di parità del periodo di frequentazione del minore con ciascun genitore, ma l’estensione dei tempi può dipendere anche dalla tenera età del figlio e dall’allattamento”. Invero, quando si parla di affidamento condiviso, specificano i Giudici di legittimità, spesso si tende a confonderlo con l’affidamento paritetico, ovvero la “esatta” divisione del tempo del minore tra i genitori; purtuttavia, sostengono i Giudici della Suprema Corte, il dettato normativo di cui all’art. 337 ter del codice civile non può (o meglio, non deve) avere sempre una interpretazione strettamente letterale, nelle situazioni in cui la rigida applicazione del testo normativo potrebbe essere lesiva di quel superiore interesse del minore che deve sempre guidare le scelte del Giudice.
In particolare, nella ordinanza in esame la Suprema Corte precisa che i tempi di bigenitorialità non devono essere considerati “paritetici” e l’estensione dei pernotti presso l’abitazione del padre non è conciliabile con la tenera età del figlio, che, al momento della presentazione del ricorso in primo grado, aveva poco più di un anno ed era ancora allattato al seno dalla madre, però, al momento della impugnazione del provvedimento giudiziale di primo grado, aveva più di due anni. Peraltro la Corte di merito, nel disporre l’affidamento condiviso, aveva, in ogni caso, assicurato al padre non convivente prevalentemente la visita ed il prelievo con sé del bambino, “solo” per un paio di giorni alla settimana! La stessa Corte di merito dava “anche” (e per fortuna!) una indicazione per il futuro, statuendo che, a far tempo dall’età di tre anni, il bambino avrebbe potuto pernottare con il padre, seppur solo per una volta a settimana, pur senza specificare affatto quale fosse il discrimen che consentisse al bambino di pernottare con il padre a partire dal terzo anno di età, ma di non farlo a poco più di due anni.
Al di là delle considerazioni dei Giudici di legittimità relative al profilo squisitamente processuale del ricorso proposto – secondo il consolidato orientamento in tema di ricorso per cassazione per cui deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme (Cass. Civ. 10927/2024) – la Corte di Cassazione sottolineava, a sostegno della propria statuizione, che “i Giudici di merito, con motivazione chiara, comprensibile e congrua (Cass. S.U. 8053/2014), hanno ritenuto che i tempi di bigenitorialità “paritetici” e l’estensione dei pernottamenti presso l’abitazione del padre “non fossero conciliabili con la tenera età del figlio”, che, al momento della presentazione del ricorso in primo grado aveva appena sedici mesi di vita, ed era ancora allattato al seno dalla madre. La Corte di merito, nel disporre l’affidamento condiviso, ha in ogni caso assicurato al padre non convivente prevalentemente la visita ed il prelievo con sé del bambino durante il fine settimana in via alternata e per due pomeriggi infrasettimanali, oltre ai quotidiani collegamenti audio/video, e anche in ordine a tutte le altre festività, ricorrenze e periodi feriali”.
La stessa Corte di merito aveva anche dato una indicazione per il futuro, affermando, nel decreto impugnato, che, all’età di tre anni del figlio, i pernottamenti presso il padre sarebbero stati previsti come regola (“con un pernottamento infrasettimanale e uno nel fine settimana, in cui il minore rimane con il padre nonché nei periodi consecutivi delle vacanze natalizie e del periodo estivo sia nel fine settimana alternato”).
Non può non sottolinearsi la rilevanza della ordinanza in questione per la definizione del principio di bigenitorialità nel contesto dell’affidamento di minori, purtuttavia restano forti le perplessità nel leggere, fra le righe della parte motiva della pronuncia di secondo grado, testualmente innanzi riportate, che i Giudici del gravame avevano ritenuto “eccessivamente prolungato il tempo di permanenza del minore col padre”, così come lascia ancora più perplessi il sostegno dato alla pronuncia di secondo grado dai Giudici della Suprema Corte, a dispetto di quell’orientamento, ormai ritenuto consolidato, favorevole alla permanenza del minore, con tempi possibilmente paritetici, con entrambi i genitori, proprio al fine di favorire una armoniosa crescita del bambino e di preservare (e stimolare, nel caso di bimbi molto piccoli) le relazioni affettive con essi genitori.
Può ritenersi il tempo di permanenza con un genitore, con un padre, “eccessivamente prolungato”? Si può razionalmente porre un limite (al di là della criticità di situazioni particolari estranee al caso di specie) al tempo che un figlio può trascorrere con un genitore, con un padre, solo perché genitore non collocatario? Quali sono i presupposti per cui il (limitato) tempo che un figlio può trascorrere con il padre deve essere racchiuso nella gabbia di rigidi orari prestabiliti, come ha ritenuto di fare la Corte di Appello di Ancona, peraltro con la restrizione di due giorni alla settimana? E il confine dei due o dei tre anni, al fine di legittimare il pernottamento con il padre, dove trova la sua giustificazione più profonda? Nella circostanza dell’allattamento del bambino? Ma a poco più di due anni quella dell’allattamento non sembra essere una valida motivazione (o una necessità primaria del piccolo) per negare il pernottamento del bambino con il padre e, soprattutto, nella fattispecie sottoposta al vaglio giudiziale dei Giudici di legittimità non sembra essere l’unica, atteso che i Giudici di merito avevano già deciso di “razionalizzare” il tempo che il figlio avrebbe potuto trascorrere col padre perché “eccessivamente lungo”.
Guardando un po’ al recente passato, la stessa Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. I, n. 16125 del 28/7/2020), con un orientamento diametralmente opposto a quello affermato dalla pronuncia in esame, aveva affermato il principio della bigenitorialità ribadendo come il diritto alla bigenitorialità debba essere inteso “quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive …, nel dovere dei primi di cooperare nell’assistenza, educazione e istruzione della prole”; nel caso di specie, la Corte non ravvisava per il minore – un bambino di due anni – alcun pregiudizio specifico potenzialmente correlabile all’eventualità dei pernottamenti, per una volta a settimana, presso la abitazione del padre genitore non collocatario, ritenendoli, anzi, “importanti per la sana e serena crescita affettivo-relazionale del piccolo e per preservare il suo rapporto con il padre”.
La giurisprudenza di merito, nel tempo, aveva già affermato questo orientamento, secondo cui se sussiste un conflitto genitoriale in ordine al prevalente collocamento dei figli, il criterio “guida” deve essere sempre il superiore interesse del minore, non potendo trovare applicazione quello da alcuni definito come “principio della maternal preference” (nella letteratura di settore, Maternal Preference in Child Custody Decisions), poiché criterio interpretativo non previsto dagli artt. 337 ter e segg. cod. civ. e, invero, in contrasto con la stessa ratio ispiratrice della normativa di riferimento, seppur anch’esso per lungo tempo affermatosi quale principio consolidato nelle pronunce dei giudici di merito e di legittimità.
Nella valutazione della questione relativa al pernottamento del figlio minore presso l’abitazione del genitore non collocatario, uno dei principali elementi che il Giudice deve considerare è il rapporto tra la condizione di fragilità legata all’età del minore e il diritto del figlio stesso di pernottare con il genitore presso l’abitazione di quest’ultimo, facendosi sempre guidare da quel best interest of the child, che si concretizza nell’interesse del figlio a mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori sin dai primi anni di vita.
Tra le pronunce di merito che hanno riconosciuto il pernottamento dei figli minori (anche in tenera età) presso il padre ricordiamo la sentenza del Tribunale di Roma dell’11/3/2016, con la quale il Giudice – anche con l’ausilio di una consulenza tecnica d’ufficio che ha ammesso la possibilità, nell’interesse della minore e per favorire il rapporto con il padre, di pernotti della stessa presso la residenza paterna – riconosceva il diritto del padre genitore non collocatario di pernottare con la propria figlia di appena sedici mesi. Il Tribunale, dimostrando particolare sensibilità, ravvisava espressamente, nella possibilità di pernottare con il padre, un elemento posto dalla legge a tutela e a favore della minore, sottolineando che assicurare un rapporto “anche” con la figura paterna, che andasse oltre la semplice “visita giornaliera”, avrebbe determinato nel figlio, anche a livello inconscio, un legame radicale con entrambi i genitori, indipendentemente dall’interruzione del loro legame sentimentale.
In tal senso, il divieto di pernottamento del minore con il padre sarebbe, in ipotesi, giustificato (o giustificabile) solo per un neonato o per un bimbo non ancora svezzato, che per esigenze oggettivamente primarie (quali, ad esempio, l’allattamento dell’infante) ha necessità di rimanere con la madre. Per il resto, tale limitazione non può (e non deve) basarsi sul preconcetto secondo cui solo le mamme sarebbero in grado di comprendere le necessità e i bisogni dei propri figli “piccoli”, mentre i padri sarebbero incapaci di espletare l’accudimento di un bambino in tenera età; così come lo stesso allattamento non dovrebbe diventare un facile strumento “estorsivo” al fine di evitare il pernottamento del bambino con il padre. Nel caso affrontato dalla Suprema Corte con la recentissima ordinanza sembrerebbe che l’età del bambino, seppur presupposto principale della decisione resa, non avrebbe di certo impedito di considerare positivamente la possibilità di un pernottamento con il padre.
E nei casi in cui il bimbo non è allattato con latte materno? Perché un padre non potrebbe dare un biberon e avere un suo ruolo specifico nella buona riuscita dell’allattamento? Non esiste una disposizione normativa che stabilisca, a priori, a che età un bimbo possa o debba pernottare con il padre (genitore non collocatario), così come, a dire il vero, risulta davvero complesso riuscire a determinare il superiore interesse del minore per un bambino di un anno, di due anni, di tre anni. In cosa ha ravvisato la Corte d’Appello di Ancona il superiore interesse del minore tanto da impedire il pernottamento con il padre sino ai tre anni di età del bambino? Non è dato saperlo.
Non bisognerebbe trascurare, nella costruzione del processo decisionale in ordine alla frequentazione del genitore non collocatario con il proprio figlio minore, tutti gli altri gesti che fanno parte dell’accudimento di un bambino piccolo e che al padre non dovrebbero essere affatto preclusi. Ben venga l’impegno, in prima persona, di un padre quando si tratta di cullare, cantare, cambiare pannolini, lavare sederini, fare il bagnetto, portare il piccolo a fare delle belle passeggiate all’aria aperta nel passeggino…perché anche questo non dovrebbe essere il superiore interesse del minore?!
Prendersi cura di un bebè non significa solo nutrirlo, ma questo sembra essere sfuggito ai Giudici della Suprema Corte nella formazione del loro convincimento. Il bambino ha bisogno di contatto, di sentirsi protetto, di sguardi e di voce, e le braccia forti del papà (al pari di quelle di una madre) sono perfette per soddisfare queste esigenze. Il papà (al pari di una madre) può tranquillizzare un bimbo inquieto, farlo ridere, raccontargli storie e intonare canzoni buffe e un giorno, quando il piccolo sarà cresciuto un po’, potrà incoraggiarlo a muovere i primi passi alla scoperta del mondo. Ogni padre (al pari di una madre) può coltivare il suo specialissimo rapporto con il proprio bambino e questo legame sarà un dono prezioso per entrambi e non dovrebbe essere un Giudice a privare entrambi di emozioni non più ripetibili, solo sulla scorta di un immotivato preconcetto: un padre non è capace di occuparsi di un figlio in tenera età. Sembrava che qualcosa stesse cambiando, ma forse dobbiamo fermarci a riflettere sulla possibilità di un “ritorno al passato” su posizioni che sembravano ormai superate.
Nel lungo e articolato percorso di evoluzione (anche sociale) del fondamentale principio di bigenitorialità e delle sue concrete applicazioni, mi piace ricordare la affermazione contenuta nella parte motiva del decreto reso dalla IX Sezione del Tribunale di Milano in data 14/1/2015 (Presidente: Dott. Dell’Arciprete; Giudice Rel.: Dott. Buffone). È trascorso qualche anno dal 2015, è vero, ma le parole del Dott. Buffone, Giudice Relatore nella fattispecie sottoposta alla attenzione del Tribunale, sembrano tanto illuminanti ed emblematiche, quanto incisive e graffianti su quel sentiero che hanno sicuramente contribuito a tracciare, soprattutto in ragione del lasso temporale trascorso: “… giova ricordare come la genitorialità si apprende facendo i genitori e, dunque, solo esercitando il ruolo genitoriale una figura matura e affina le proprie competenze genitoriali; il fatto che, al cospetto di una bimba di due anni, un padre non sarebbe in grado di occuparsene è una conclusione fondata su un pregiudizio che confina alla diversità (e alla mancanza di uguaglianza) il rapporto che sussiste fra i genitori”. Una stridente antinomia con il più attuale giudicato della Suprema Corte che, a quasi dieci anni di distanza, riafferma clamorosamente il principio della insussistenza di una “applicazione rigida”, in termini di parità, del periodo di frequentazione del minore con ciascun genitore, sottraendo, così, al padre (non collocatario) momenti unici che sicuramente il percorso della vita non consentirà di replicare e costringendo il bambino ad un regime “di fatto” monogenitoriale.
Se il principio di bigenitorialità richiede, per la sua effettiva attuazione, una presenza e una partecipazione costante di entrambi i genitori nel percorso di crescita del bambino e del suo divenire uomo o donna, forse anche la privazione di un solo momento di vita con il suo papà o con la sua mamma (ove non seriamente giustificato e adeguatamente motivato) segna un passo indietro rispetto alla affermazione di quello che è il suo effettivo “interesse superiore”.
- Avvocato. ISP Bari