di Silvana Bisogni *
Il sistema dell’istruzione italiano, in questi ultimi giorni, è tornato alla ribalta sui media per la convergenza di vari approcci alla sua situazione: la pubblicazione del Rapporto “REGARDS SUR L’EDUCATION 2019. Les indicateurs de l’OCDE”, il Rapporto sull’Edilizia scolastica della Fondazione Agnelli (Editori Laterza 2019), la pubblicazione delle classifiche mondiali di università più prestigiose “QS World University Rankings”, la pubblicazione del 53° Rapporto CENSIS sulla situazione sociale del Paese/2019, infine le varie dichiarazioni del nuovo Ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti e le prospettive di interventi sugli esami di maturità e le ipotesi di riforma del sistema scolastico.
Da tutti questi documenti appare evidente lo stato di criticità in cui versa il sistema dell’istruzione italiano, anche se debbono essere validamente segnalate tutte le situazioni di eccellenza e di significative innovazioni di cui il sistema è ricco, ma che vengono sottovalutate anche per la diffusa “cultura del lamento”, atteggiamento italico che predilige la denuncia degli aspetti esclusivamente negativi anche a fronte di reali e importanti situazioni positive.
Peraltro non è sufficientemente considerato, nel mancato superamento delle criticità, anche il record italiano nella guida politica del sistema dell’istruzione: nei 73 anni intercorsi dal primo governo repubblicano ad oggi sono stati 40 i ministri, con la media di 1 ministro ogni anno e mezzo circa. Per una rapida valutazione, dall’anno 2001 ad oggi le “riforme” per i vari livelli del sistema, proposte approvate da governi di diverse espressioni politiche, portano la firma di Moratti, Fioroni, Gelmini, Giannini, Profumo, Carrozza, Fedeli, Bussetti, Fioramonti; ciascuno ha voluto lasciare una impronta di sé con interventi parziali o vere e proprie riforme, poi smentite o annullate, in toto o parzialmente, dai ministri successivi. Nonostante tale “affollamento” di ministri la scuola è rimasta in balia della solita emergenza.
Tra le tante voci a commento e confronto sulle concause delle criticità del sistema dell’istruzione e del suo progressivo e, sembra, inarrestabile, deterioramento del prestigio, è ritornata la ormai classica denuncia della femminilizzazione della scuola, nell’immaginario collettivo definita “scuola rosa”.
I DATI OCDE
Il fenomeno della crescente femminilizzazione dell’insegnamento investe tutti i Paesi economicamente più sviluppati, come risulta dal Rapporto dell’OCDE (Organisation de coopération et de développement économiques, organismo a cui aderiscono 36 Paesi ad economia avanzata), il cui Rapporto dedica ampio spazio proprio a questo tema, individuandone dati e motivazioni.
Ne deriva che in media nei Paesi OCDE il 70% degli insegnanti sono donne; le percentuali più elevate, quasi totali, sono presenti nei primi livelli di scolarizzazione e diminuiscono progressivamente man mano che sale il livello scolastico: le donne rappresentano più dell’85% del corpo docente nell’insegnamento nelle scuole dell’infanzia e più del 60% nell’insegnamento secondario, ma scendono al 44% nell’insegnamento accademico. Nei 28 Paesi della UE (i dati si riferiscono al 2016), le donne sono l’84,7% degli insegnanti nell’istruzione primaria e il 64% in quella secondaria.
UN PO’ DI STORIA ITALIANA
In Italia la femminilizzazione del corpo docente è un fenomeno che percorre la storia del Paese dalla sua unificazione ed ha evidenti ragioni storiche, oltre che culturali e sociali. Si può a buon diritto affermare che la femminilizzazione dell’istruzione sia stata funzionale allo sviluppo del sistema scolastico italiano e alla crescita culturale di intere generazioni. Nel suo complesso il livello di scolarizzazione raggiunto in Italia dal dopoguerra ad oggi è un risultato straordinario, data la situazione pregressa di diffuso analfabetismo e semianalfabetismo.
Secondo i dati del Censimento 1861, rilevato nel periodo immediatamente successivo all’unificazione dell’Italia, il tasso di analfabetismo era pari al 74,7% della popolazione, situazione drammatica, notevolmente più grave rispetto agli altri Paesi europei. Per combattere l’analfabetismo ci furono iniziative come le scuole reggimentali per cui i maschi soggetti alla leva imparavano a leggere e a scrivere. Per gli altri la frequenza delle scuole, sia pure solo elementare, era subordinata a pesanti condizionamenti sociali, principalmente per la necessità di impiegare giovanissimi e giovani specialmente nei lavori dei campi e delle fabbriche. E in questa situazione le bambine e le ragazze erano le più discriminate.
Il corpo docente era costituito prevalentemente da maestri e docenti uomini, con rare eccezioni di maestre per le poche classi femminili. L’emblema delle maestre è rappresentata dalla la Maestrina dalla Penna Rossa, dolce e combattiva maestra co-protagonista del libro “Cuore” di De Amicis. Solo nel 1877, con la legge Coppino, si introdusse l’obbligo di frequenza della scuola elementare, a cui, lentamente, cominciarono a partecipare anche le bambine, sia pure solo per le prime classi, lo stretto necessario per imparare a leggere, a scrivere e a “far di conto”.
Il processo di alfabetizzazione (dedicato a grandi fasce della popolazione) proprio dell’età contemporanea, ebbe nella maestra la figura chiave, in quanto l’insegnamento primario avvenne in osmosi con il percorso di costruzione dello stato nazionale: il nuovo stato aveva un eccezionale bisogno di personale da impiegare nell’istituendo sistema scolastico unitario, e pertanto consentì alle donne di essere ammesse alle scuole normali, con conseguente assunzione nella scuola elementare, ad un’età inferiore rispetto a quella maschile: a parità di diploma, luogo e classe d’insegnamento le donne erano retribuite con stipendi pari a due terzi di quelli maschili, spingendo così i municipi a preferire le docenti donne.
Fattori culturali fondamentali per l’accettazione di questo ruolo femminile furono senz’altro l’ideologia borghese dell’800 e la tradizione cattolica, che condividevano la necessità che l’educazione dei bambini fosse una attività precipuamente femminile; la funzione dell’insegnante elementare era socialmente accettata perché vissuta come una sorta di maternità vicaria, estensione naturale del ruolo domestico familiare. Inoltre, le maestre erano tendenzialmente meno sindacalizzate dei colleghi maschi per le condizioni generali di cittadinanza femminile del tempo. In questa che rimase a lungo l’unica professione intellettuale femminile, le giovani maestre potevano vivere la costruzione della propria professionalità con l’acquisizione di autonomia personale e di emancipazione individuale e sociale.
In età giolittiana, con la legge Daneo-Credaro, si produsse un incremento dell’accesso femminile alla professione e un miglioramento complessivo della posizione lavorativa, perché sanciva il passaggio allo stato di gran parte delle scuole elementari e dava nuovo impulso alla battaglia per l’obbligo scolastico: dal punto di vista sociale, la professione docente femminile assumeva la sicurezza e la dignità di un impiego statale.
Durante il fascismo, anche a causa dell’aumento della disoccupazione intellettuale, fu favorito l’accesso maschile all’insegnamento, anche nelle scuole primarie, riducendo di fatto la presenza femminile, tra l’altro scoraggiando l’iscrizione femminile alle scuole secondarie e all’Università con una tassazione più alta. Tuttavia, nonostante queste restrizioni, la spinta femminile di massa all’istruzione secondaria e all’istruzione magistrale continuò fino alla quasi completa femminilizzazione del ruolo dell’insegnante elementare.
Con la riforma del 1962 la scuola venne aperta a tutti: le classi diventarono miste, la frequenza, obbligatoria, consentì anche ai ragazzi delle classi più disagiate di poter frequentare percorsi scolastici, almeno fino alla fine della scuola media inferiore. Fu questa una svolta “epocale” per l’istruzione diffusa, che permise anche alle ragazze di poter studiare, come loro diritto sancito dalla Costituzione. E fu una vera esplosione di partecipazione al femminile, che da allora non si è più arrestata, anzi ha raggiunto e superato la presenza di studenti di sesso maschile.
I DATI IN ITALIA
E’ innegabile la preponderante presenza del personale (dirigenti, docenti, personale ATA) di sesso femminile nel sistema scolastico e formativo italiano, prevalenza di genere unica nel panorama occupazionale nazionale per le peculiarità assunte tra gli oltre 850.000 addetti. In poco più di mezzo secolo la più grande avanzata occupazionale femminile si è verificata nel comparto dell’istruzione e della formazione.
Va sottolineato che persino l’impegno politico di ministre dell’Istruzione nei governi che si sono succeduti dal 2001 (10 anni su 19) costituisce l’unico ruolo di governo in cui le donne hanno raggiunto la parità. A livello istituzionale, nello stesso Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) sono donne in prevalenza a ricoprire le posizioni apicali, Direzioni regionali comprese.
Secondo le rilevazioni del CENSIS (53° Rapporto CENSIS sulla situazione sociale del Paese/2019), nel 2018 il complesso del personale del comparto istruzione è stato costituito da:
COMPARTO DELL’ISTRUZIONE | DONNE | UOMINI |
Dirigenti scolastici | 69% | 31% |
Docenti scuola dell’infanzia | 99,3% | 0,7% |
Docenti scuola primaria, | 96,1% | 3,6% |
Docenti scuola secondaria di primo grado | 77,2% | 22% |
Docenti secondaria di secondo grado | 65%. | 35% |
Personale ATA (collaboratori e amministrativi) | 68,9% | 31,1% |
Sistema della formazione professionale | 60% | 40% |
Personale docente Università e ricercatori | 40,5% | 59,5% |
Professori ordinari | 21% | 79% |
Titolari di assegni di ricerca | 50% | 50% |
Particolarità tutta italiana il numero delle dirigenti scolastiche: sono il 69% rispetto ad una media dei Paesi OCDE pari al 47%, mutazione interessante rispetto a 20 anni fa quando la prevalenza era maschile (62,7%).
L’articolazione del fenomeno a livello territoriale conferma, con scarse variazioni, il dato nazionale
AREE | TOTALE DOCENTI | DOCENTI DONNE | PERCENTUALI |
Nord Ovest | 168.895 | 141.880 | 84,00% |
Nord Est | 114.532 | 94.401 | 82,42% |
Centro | 145.139 | 121.991 | 84,05% |
Sud | 206.144 | 169.176 | 82,07% |
Isole | 95.813 | 76.673 | 80,02% |
Totale | 730.523 | 604.121 | 82,70% |
La femminilizzazione del sistema dell’istruzione non riguarda soltanto il settore dei docenti e del personale addetto: vi è una specifica femminilizzazione anche a livello di studenti, sia nelle scuole, che nelle università,
a) nella scuola
Nel 2018 le ragazze sono il 48,5% del totale degli iscritti al primo anno delle scuole secondarie superiori: il 60,5% nei licei, il 42,8% negli istituti professionali e il 30% negli istituti tecnici. Le studentesse rappresentano la maggioranza degli iscritti al primo anno in tutti gli indirizzi liceali, con esclusione di quello scientifico. Nei licei delle scienze umane le ragazze sono l’88,6% degli studenti, nei linguistici il 78,3%, al liceo classico il 70,1% e al liceo artistico il 70%.
Secondo il CENSIS (2019) le donne hanno il primato negli studi, in quanto studiano di più e con risultati migliori dei loro coetanei maschi. Infatti la differenza tra studenti di sessi diversi sta anche nel migliore rendimento scolastico delle allieve, che registrano percorsi più regolari, maggiore propensione al prolungamento degli studi e infine migliori punteggi nelle prove conclusive. Le ragazze ottengono risultati più brillanti in tutti i cicli scolastici. Alle scuole medie il 5,5% delle ragazze si licenzia con 10 e lode contro il 2,5% dei ragazzi. Il voto medio di diploma è 79/100 per le femmine e 76/100 per i maschi.
E’ statisticamente provato che a scuola i ragazzi hanno rendimento peggiore delle loro compagne: voti più bassi, più bocciature e, soprattutto, più abbandoni. All’esame di terza media, dove vengono promossi praticamente tutti (99,8%), quasi il 30% dei maschi viene «licenziato» con il 6, la soglia minima, sufficienza risicata che spinge a scegliere istituti tecnici o professionali, in cui i livelli di dispersione scolastica sono piuttosto alti, fino all’abbandono vero e proprio.
b) all’Università
Tra i 7,6 milioni di laureati, le donne sono 4.277.599, pari al 56%, e tendono a crescere (negli ultimi cinque anni sono aumentate del 22,7%, più dei maschi +16,8%). Nel 2018 hanno conseguito una laurea 183.096 donne, il 57,1% del totale dei laureati. Sempre nel 2018 le studentesse iscritte all’università sono state 938.816, il 55,4% degli iscritti. Le donne sono la maggioranza anche negli studi post-laurea: sono il 59,3% degli iscritti a un dottorato di ricerca, un corso di specializzazione o un master.
All’università i gruppi disciplinari a più alto tasso di femminilizzazione sono Insegnamento (con il 91,8% di studentesse sul totale), Linguistico (81,6%), Psicologico (77,6%) e professioni sanitarie (69,8%). Invece la partecipazione femminile è particolarmente bassa nei corsi accademici STEM: Informatica e Tecnologie ICT (13%), Ingegneria Industriale e dell’Informazione (22%), Scienze Motorie e Sportive (28,8%), mentre si osserva un’inversione di tendenza nei gruppi geo-biologico, chimico-farmaceutico e architettura, dove sono le donne a prevalere.
All’università il 55,5% delle studentesse si laurea in corso, rispetto al 50,9% degli studenti maschi. Il 24,9% delle femmine si laurea con 110 e lode, contro il 19,6% dei maschi. E il voto medio conseguito alla laurea è pari a 103,7 per le donne e a 101,9 per i maschi.
A livello accademico le donne costituiscono il 40% del totale del personale docente e ricercatore, con delle differenze tra i vari livelli della carriera accademica. Sono oltre il 50% del totale dei titolari di assegni di ricerca, la loro presenza si riduce mano a mano che si avanza nella scala gerarchica fino a raggiungere il 21% tra i professori ordinari
LE CAUSE DELLA FEMMINILIZZAZIONE
La presenza di una fascia di donne con un grado di istruzione quali-quanti-tativamente superiore a quello maschile ha avuto come effetto, tra gli altri, una ricaduta occupazionale nel sistema scolastico non solo per scelte e aspirazioni individuali, ma anche per condizionamenti culturali, economici e sociali: vi è quindi una convergenza di cause che richiede qualche nota di commento.
Il Rapporto dell’OCDE indica alcuni dei motivi per cui ai parla di femminilizzazione dei sistemi scolastici, nonché dei motivi per cui la presenza maschile nell’insegna-mento è così carente o diversamente diffusa nei vari cicli scolastici:
- Il lavoro dell’insegnante è quello che più di altri permette la conciliazione con il lavoro domestico e di cura, e la sua progressiva femminilizzazione ha trasformato lo stesso lavoro a scuola in un lavoro di cura, quindi soggetto a tutta una serie di conseguenze: svalutazione sociale ed economica, mole di lavoro gratuito, spirito di sacrificio, eliminazione del confine tra vita privata e vita lavorativa.
- E’ costante il riferimento alla dimensione vocazionale e quasi di destinazione biologica delle donne per questo lavoro, soprattutto per la scuola dell’infanzia, in cui il lavoro, nell’esaltazione della dimensione affettiva piuttosto che quella pedagogica, viene considerato più “adatto” alle donne, “naturalmente” materne e “portate” a lavorare con i bambini, secondo uno stereotipo di genere.
- A livello internazionale, secondo l’OCDE, il limitato numero di uomini docenti nelle scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado ha ragioni culturali ed economiche. Molto dipende, ad esempio, dalle attese delle famiglie in termini di ambizioni professionali, che possono essere basate su stereotipi di genere. Tale dato emerge dalle scelte delle discipline di insegnamento: le donne tendenzialmente scelgono discipline umanistiche, mentre gli uomini percepiscono come dominio maschile le discipline scientifiche e tecnologiche.
- dal punto di vista economico i giovani scelgono le professioni in funzione delle loro attese economiche. Nei paesi OCDE gli uomini preferiscono professioni diverse dall’insegnamento in quanto i compensi sono maggiori in altri ambiti professionali, aspetto che riguarda molto meno le donne, che ritengono la professione docente più attrattiva in rapporto alle altre professioni.
- la docenza per gli uomini ha un maggiore significato professionale ed economico quando viene svolta a livello accademico, nei master e nei dottorati di ricerca ed è significativo che a livello internazionale ed europeo le donne costituiscono solo un terzo dei ricercatori e un quarto dei docenti ordinari. In particolare le ricercatrici sono più soggette, rispetto ai colleghi maschi, a contratti valutati come precari, con una differenza di compenso, in specie in alcuni particolari settori di ricerca scientifica, come la tecnologia, in ingegneria e nelle scienze matematiche.
CRITICITA’
Il dibattito culturale sul tema della femminilizzazione del sistema dell’istruzione ha evidenziato varie criticità: se ne citano solo alcune, tra cui:
- La mancanza della figura maschile nella scuola nuoce ai tutti i ragazzi, specialmente ai maschi, in quanto privi di una figura, di un modello di ruolo con cui identificarsi per i maschi, e di una figura con cui confrontarsi con l’altro sesso per le femmine. Il problema non è solo italiano ma interessa anche gli altri sistemi scolastici europei, con rare eccezioni. L’antropologa Ida Magli sosteneva che “i bambini e gli adolescenti devono imparare sia dalla donna che dall’uomo, perché i due generi hanno ideali, impulsi, percezioni, emotività, conoscenze diversi uno dall’altro e gli studenti devono assorbire dall’uno e dall’altro genere”.
- La carenza di uomini tra i docenti in tutto il percorso di studi preuniversitario demotiverebbe gli studenti maschi dall’intraprendere questa professione, percepita ormai come esclusivamente femminile.
- La questione economica ha un ruolo preponderante nelle scelte di non entrare nel personale della scuola: confrontando le retribuzioni dei docenti e quelle dei laureati occupati in altri settori, si osserva in generale che gli insegnanti italiani ricevono una retribuzione intorno al 70% di quanto ottengono in media i laureati.
- Nella classifica OCSE sugli stipendi degli insegnanti l’Italia si trova al 16° posto, ben al di sotto della media. con salari annui lordi medi, a quota 147 euro, ultimi tra i colleghi delle maggiori economie Ue. A titolo esemplificativo gli stipendi medi lordi degli insegnanti in altri Paesi europei: Danimarca (60.444 euro), seguiti dalla Germania (55.926), poi Austria (48.974), Paesi Bassi (47.870), Belgio (44.423), Finlandia (44.269), Svezia (40.937), Regno Unito (37.195), Francia (33.657) e Portogallo (29.941).
- Altro problema: l’aumento della precarizzazione del personale scolastico. La scuola italiana è infatti grande produttrice di lavoro precario: basti pensare al regime delle supplenze, ai contratti a tempo determinato, a licenziamenti e successive riassunzioni, procedure che possono durare anche anni, in attesa di una stabilizzazione.
- La femminilizzazione dell’insegnamento è ritenuta una causa di un certo impoverimento della qualità dell’insegnamento soprattutto nell’area delle discipline tecnico-scientifiche (generalmente meno frequentate dalle donne), essendo i laureati maschi in tali discipline attratti da altre professioni, più gratificanti e meglio retribuite.
* Sociologa dell’educazione. Roma