di Maurizio Quilici *
Per due volte ha impedito all’ex marito di vedere il figlio. Senza motivo plausibile e contravvenendo a quanto stabilito nel giudizio di separazione. Tanto è bastato al Tribunale di Castrovillari, in provincia di Cosenza, perché i giudici ravvisassero in questo comportamento una violazione dell’art. 388 c. p. (“Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice “), comma 2, e condannassero la donna a due mesi di reclusione. Nella sentenza – la n. 471/2018 – si sottolinea che il provvedimento del giudice è stato preso anche in considerazione del fatto che, pur riguardando il capo di imputazione due soli episodi, dopo quelli (che si riferiscono, si noti, all’estate del 2013) il padre non era più riuscito a incontrare il figlio, né a sentirlo telefonicamente.
Di per sé non è una sentenza sconvolgente (per quanto non accada spesso che un genitore che impedisce all’altro la frequentazione di un figlio venga condannato), e tuttavia questo procedimento giudiziario e questa sentenza contengono una serie di elementi, degni di nota, che costituiscono altrettanti motivi di riflessione.
Partiamo dall’inizio: il 13 gennaio 2012 il giudice civile di Castrovillari emette provvedimento di separazione di due coniugi con un figlio di quattro anni. Dispone l’affido condiviso e, come da prassi, il collocamento presso la madre e l’assegnazione della casa coniugale alla madre. Stabilisce anche – si ricorda in sentenza – “precise disposizioni relative al diritto di visita del padre”. Verrebbe da dire qualcosa a proposito di questa infelice espressione, “diritto di visita”, che resiste nel linguaggio del diritto di famiglia a dispetto di ogni sensibilità e di ogni logica. In realtà non andrebbe trovata un’altra espressione, andrebbe abolito il concetto. Ma sorvoliamo e osserviamo, invece, che il suddetto diritto consiste in tre ore e mezzo due volte alla settimana! Giovedì e sabato, dalle 16:30 alle 20:00. Al momento di questa pronuncia la legge 2006/54 sull’affido condiviso è in vigore da quasi sei anni e la Cassazione ha già chiarito che la eventuale conflittualità delle parti (come nel caso di specie) non preclude affatto l’affido condiviso. La legge prevede all’art. 1 che il figlio minore mantenga un rapporto “equilibrato e continuativo” con entrambi i genitori e con i loro ascendenti e parenti. In questo caso, il minore non è un neonato ma un bimbo sufficientemente autonomo per poter avere con il padre un rapporto con tempi ben più significativi, compreso certamente il tanto discusso “pernotto”. Ma tant’è: così viene applicato l’affidamento “condiviso”. E basterà leggere, su questo stesso sito, la documentazione raccolta con il titolo “Da una lettera a un dossier” per capire quanto il provvedimento di separazione di cui stiamo parlando costituisca la regola e non l’eccezione. La madre del minore, però, non è soddisfatta “in relazione” – si legge nel dispositivo della sentenza – “alla ‘ampiezza’ delle statuizioni relative ai periodi di tempo che il minore poteva trascorrere con il padre” (sic) e propone reclamo, che viene rigettato dalla Corte d’Appello di Catanzaro.
Poi ha inizio il procedimento. Come si è detto, questo scaturisce dal fatto che per due volte la madre si è rifiutata di far incontrare il figlio con il padre, adducendo la giustificazione – tra le più diffuse nel dopo-separazione – che il bambino era malato e non poteva uscire. In giudizio viene dimostrato invece che il bimbo stava benissimo, tanto che il nonno materno lo aveva accompagnato dal barbiere a tagliarsi i capelli.
Tutti conosciamo i tempi della giustizia – penale e civile – nel nostro Paese, che ci sono costati più volte sanzioni da parte della Unione Europea. Qui, però, c’è qualcosa di tipicamente “italico” nelle motivazioni di quelle lungaggini, che merita di essere sottolineato. Risulterà più chiaro esponendo i fatti schematicamente:
- 05.2014 decreto di citazione a giudizio;
- 12.2014 prima udienza, con costituzione del padre quale parte civile e varie procedure di rito che si concludono con ordinanza di ammissione alle prove;
- 11.2015 udienza rinviata per impedimento dell’organo giudicante;
- 06.2016 udienza rinviata per legittimo impedimento del difensore;
- 12.2016 udienza nella quale, dato atto del mutamento della persona del giudice, la difesa di parte civile avanza per la terza volta eccezione che viene dichiarata tardiva dal decidente, le parti reiterano le istanze istruttorie già formulate e il giudice ripete l’ordinanza ammissiva. Istruttoria dibattimentale e acquisizione di documentazione;
- 04.2017 udienza rinviata per adesione del P. M. alla astensione dalle udienze proclamata dalla Unione Nazionale Magistrati Onorari;
- 09.2017 udienza con escussione dei testi di p.c. e della stessa p.c.
- 12.2017 udienza rinviata per mancata comparizione dei testimoni della p.c. e della difesa;
- 01.2018 udienza rinviata per legittimo impedimento del difensore;
- 03.2018 udienza conclusiva e sentenza.
L’iter giudiziario non sorprende più di tanto e si commenta da solo: è durato quattro anni, durante i quali nessuna autorità è riuscita a far rispettare il disposto del giudice e a far incontrare padre e figlio (l’uomo ha riferito in giudizio di aver proposto altre querele in relazione ad altri episodi nei quali gli era stato negato di vedere il bambino). Ben cinque udienze sono state rinviate con motivazioni varie che possono essere ineccepibili, ma certo sono disastrose nelle conseguenze.
Ma ci sono altri motivi di riflessione. La madre del minore – secondo una prassi ormai consolidata – aveva accusato l’ex marito di violenza sessuale nei confronti del bambino, inducendo quindi il giudice a stabilire incontri padre-figlio alla presenza degli assistenti sociali, incontri ai quali la madre, peraltro, non aveva mai portato il bambino. La denuncia era stata poi archiviata, né si ha notizia di conseguenze penali per la donna in seguito alla calunnia.
Naturalmente la casa coniugale era stata assegnata alla madre, ma in giudizio il padre ha riferito che la donna l’aveva abbandonata da cinque anni (anche qui in barba alla legge 54 del 2006) e che lui non sapeva dove aveva stabilito la residenza.
Come sempre, l’ostilità di un genitore separato si riflette sui genitori dell’altra parte. Anche in questo caso la vicenda assume i contorni di un topos: la nonna paterna ha testimoniato in aula di non vedere il nipote da quattro anni e ha raccontato che per poterlo vedere da lontano si recava davanti alla scuola frequentata dal bambino e restava a distanza perché la nuora, se la vedeva, la minacciava e le faceva gesti ingiuriosi.
La giudice, dopo aver sottolineato “la attendibilità della parte lesa” e “la sussistenza dell’elemento psicologico del reato” da parte della madre, ha ritenuto di “adeguare la sanzione all’obiettiva gravità del fatto ed alla personalità del reo” condannando quest’ultima alla pena di due mesi di reclusione, con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali (€ 1.440,00) e risarcimento dei danni morali e materiali da liquidarsi in sede civile. Naturalmente c’erano le condizioni per i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione, e così è stato. Dunque quale pena, in concreto, per aver impedito per un periodo così lungo il rapporto padre-figlio con gravissimo danno per un bambino in un’età in cui la presenza del padre è tanto necessaria, per aver negato un rapporto non meno significativo quale quello di un bambino con i nonni, per aver disatteso in più punti la Legge sull’affido condiviso, per aver infranto il Codice Penale, per avere con cinismo rivolto al padre l’accusa più infamante che si possa formulare a un genitore?
Lo ripetiamo: questa sentenza e il processo che l’ha preceduta non sono affatto eccezionali; potremmo dire, anzi, che sono una sentenza e un processo “tipo”. Ma proprio per questo inducono a riflessioni amarissime.
* Presidente dell’ISP