Il seguente testo è opera collettiva di Chiara Vendramini, di Fulvio Scaparro e soprattutto di Cecilia Fraccaroli, avvocato e nostra mediatrice familiare.
Rispetto all’accorata lettera della collega, avv. Paesano, indirizzata al dott. Quilici in qualità di Presidente dell’Istituto di Studi sulla Paternità (I.S.P.), così come in relazione alla replica di quest’ultimo, le mie osservazioni attengono a due distinti piani.
Da un lato, mi sento di contraddire con fermezza le affermazioni di entrambi, secondo cui il principio di bigenitorialità sarebbe oggi esistente solo “sulla carta”, mentre sarebbe di fatto totalmente disapplicato nelle aule giudiziarie e nelle sentenze di merito. Secondo l’avv. Paesano, infatti, in relazione alla l. 54/2006 sull’affidamento condiviso dei figli, “la formula che contiene la promessa di una genitorialità piena, a tutti gli effetti, si rivela presto una formula di stile (…) una sterile disposizione che non muta la sostanza delle cose”. L’avv. Paesano prosegue asserendo che “ciò che invece conserva intatta la sua forza ancora oggi è la convinzione della madre quale genitore astrattamente più idoneo a crescere i figli”; dello stesso avviso è il dott. Quilici, il quale replica precisando che la legge 54 sull’affidamento condiviso è “una legge ridotta dalla giurisprudenza a mero cambio di termini senza alcun mutamento di sostanza e senza alcun rispetto per quello che era stata la ratio del legislatore, che ben altro peso voleva assegnare alla figura del padre”, e che “è nel mondo del Diritto, nelle aule di giustizia dove si decide della sorte dei figli nel momento, doloroso per tutti, della separazione che il tempo sembra essersi fermato. E che lo stereotipo della donna per ciò stesso “buona madre” continua a dominare”.
Mi sento di contraddire tali affermazioni, sulla base della mia esperienza professionale, ed in particolare in relazione alla giurisprudenza del Tribunale di Milano, che ha recentemente agito ed assunto provvedimenti tali da smentire in toto le affermazioni citate sopra.
Penso, ad esempio, alla decisione del Tribunale Milano del 13 Ottobre 2016, il cui estensore è stato il dott. Buffone, il quale ha evidenziato che, allorché sussista conflitto genitoriale in ordine al prevalente collocamento dei figli, il criterio “guida” è il superiore interesse del minore, non potendo al contrario trovare applicazione quello da alcuni definito come “principio della maternal preference” (nella letteratura di settore: Maternal Preference in Child Custody Decisions), poiché criterio interpretativo non previsto dagli articoli 337-ter e ss del codice civile ed in contrasto con la stessa ratio ispiratrice della legge 54 del 2006 sull’affidamento condiviso. Il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno condotto all’abbandono del criterio della “maternal preference” a mezzo di «gender neutral child custody laws», ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario/collocatario, potendo dunque essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore, il genitore di prevalente collocamento, e non potendo essere il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale. Peraltro, sempre secondo il dott. Buffone, non può essere ritenuto argomento valido quello ricavabile dalla sentenza della Cassazione n. 18087 del 14 settembre 2016: in quel caso, come si legge nella citata decisione di legittimità, il criterio della c.d. Maternal preference non era stato “tempestivamente contestato” ed era divenuto, dunque, elemento passato in giudicato; comunque, la Suprema Corte aveva fondato la sua decisione non certo sul solo criterio sopra indicato, ma su altri numerosi argomenti, specificamente citati nella motivazione.
Non mi pare possa dunque affermarsi che ancora oggi continua a dominare lo stereotipo della madre come “genitore di serie A”, anzi.
Sempre secondo l’avv. Paesano, la madre, che sarebbe considerata come il genitore astrattamente più idoneo a crescere i figli, “viene autorizzata a portarli con sé perché è l’unica idonea a crescerli”. Sul punto, ho avuto invece personale esperienza di una controversia in cui assistevamo il padre, mentre la madre – collocataria dei due figli – chiedeva di portare con sé i bambini in un’altra regione, dove essa aveva avviato una nuova professione ed una nuova relazione sentimentale dopo la separazione. Oggi, quei bambini sono ancora qui in città, sono stati ascoltati anche personalmente, e sono state prese in considerazione ed accolte le istanze paterne, mentre la madre non è stata autorizzata al trasferimento. Anche a questo riguardo poi, esistono numerose sentenze di merito del Tribunale di Milano che ribadiscono come il luogo di residenza del minore, anche nel caso in cui i genitori siano separati o divorziati, debba necessariamente essere concordato da questi ultimi, insieme, mentre non è ammissibile una decisione unilaterale (Trib. Milano, decr. 17 dicembre 2014).
Sempre su questo punto c’è una importante sentenza, che anche noi abbiamo citato a sostegno degli argomenti paterni nel caso a cui ho fatto riferimento poco sopra, che fissa i criteri – oggettivi – in base ai quali può essere autorizzato o meno il trasferimento del genitore collocatario con i figli in luogo diverso da quello della residenza abituale: tale decisione stabilisce la necessità, anzitutto, di una approfondita analisi delle motivazioni del richiesto trasferimento, nonché dei tempi e delle modalità di frequentazione che sarebbero garantite al genitore non collocatario e della disponibilità anche di quest’ultimo di trasferirsi per seguire i figli (Trib. Milano, ordinanza 12 agosto 2014, est. Dr. Canali).
Alla luce di quanto sopra, ecco perché mi sento di contraddire il dott. Quilici laddove egli afferma che: “Bigenitorialità”, “affido condiviso”, “ascolto del minore”…: sono parole prive di senso reale.
D’altra parte, sulla base della lettera dell’avv. Paesano e del commento del dott. Quilici, emergono anche considerazioni importanti in risposta alla domanda che entrambi si pongono: “cosa possiamo fare perché la separazione dei genitori non sia ancora separazione dei figli da uno dei genitori?” Questa domanda pare essere posta proprio per rispondere ad essa: “la mediazione familiare!”.
In effetti, al di là degli orientamenti giurisprudenziali e delle opinioni che ciascuno ha al riguardo, anche una sentenza che preveda l’obbligo dei genitori di concordare gli aspetti più importanti della vita dei figli, per avere applicazione sostanziale deve trovare un terreno fertile. Il conflitto che vede opposti i genitori nelle aule del tribunale, dopo la sentenza non scompare, se non viene affrontato e gestito, e dunque la possibilità di concordare le scelte di maggiore importanza per i figli sorge solo nel momento in cui torna possibile il confronto e la comunicazione tra gli stessi genitori. In questo senso, la mediazione è forse l’unico strumento utile, l’unico avente il fine di recuperare le risorse dei genitori divisi, nell’interesse dei figli, e di ripristinare tra essi un livello di comunicazione accettabile.
Anche in questo caso, la giurisprudenza è attenta e vigile: sono ormai numerose le sentenze – non solo dei giudici milanesi – che mettono in luce l’opportunità, per i genitori, di intraprendere un percorso di mediazione familiare (tra le altre, Trib. Pavia, 9 maggio 2017).
Posto quindi che, a mio parere, la giurisprudenza è tutt’altro che ferma rispetto all’applicazione del principio di bigenitorialità, per dare concreta applicazione alle decisioni emesse dai Tribunali è necessario diffondere la cultura mediativa e spiegare l’importanza e l’utilità di uno strumento, quale è la mediazione familiare, in grado di dare vita ed effettività a decisioni che – queste sì – rischierebbero di rimanere lettera morta.
*Già ordinario di Psicopedagogia, Università degli Studi di Milano
**Presidente GEA