Come dice giustamente l’Avv. Gaetana Paesano, le ultime leggi in materia di diritto di famiglia e di filiazione, approvate dal Parlamento italiano, sono “conquiste di civiltà”. Non tutte le norme in esse contenute sono da me interamente condivise, ma si tratta di dettagli che qui posso indagare solo in modo rapsodico. Sostanzialmente, vanno nel senso giusto, in linea con l’evoluzione del diritto internazionale in materia.
Nella tua risposta, leggo con grande interesse e condivido in pieno la precisazione che ti affretti a fare, dalla quale prende spunto anche la mia riflessione: ci battiamo <<perché nel momento della separazione e dell’affidamento dei figli si rifugga dalle decisioni stereotipate, si abbia a cuore la serenità e lo sviluppo equilibrato dei minori coinvolti, si valuti con il giusto peso la rilevanza della figura paterna>>.
Stiamo parlando, infatti, di affidamento dei figli minorenni in caso di separazione o divorzio dei genitori; quindi, di diritti dei figli da affidare, giacché l’obbiettivo principale dichiarato del Legislatore, a parte gli altri legittimi obbiettivi, è di evitare o limitare i traumi derivanti al bambino dalla disgregazione del nucleo familiare.
A questo punto, mi sembrano necessarie alcune precisazioni; anche se la prudenza e l’amore del quieto vivere consiglierebbero di lasciar correre o, per lo meno, di smorzare i toni. La tua fiducia però m’incoraggia ad essere franco.
Sostiene la tua gentile corrispondente che il principio ispiratore della legge si manifesta come <<forza contenuta nell’affermazione della co-genitorialità>>; ma che purtroppo, nella fase dell’interpretazione e dell’applicazione, esso decade a <<formula di stile>>, a <<sterile disposizione che non muta la sostanza delle cose>>.
È confortante incontrare, di tanto in tanto, persone moralmente integre, ancora convinte che per attuare un principio di valore basti una legge che lo proclami ed una sentenza che l’imponga nel caso concreto. Ahimè!, l’esperienza – e quel tanto di malizia che inevitabilmente l’accompagna – suggeriscono che le cose non stanno in questo modo. L’affermazione solenne di un principio non significa affatto che esso sarà puntualmente e generalmente applicato: oltre all’affermazione, occorre l’introiezione, cioè che la generalità dei consociati, a partire dagli operatori specialisti, se ne appropri culturalmente e vi si adegui spontaneamente nella maggior parte dei casi.
Il fatto che un principio di valore sia scritto in una legge è una vittoria di tappa: significa che abbiamo ottenuto qualcosa, abbiamo fissato un paletto, ma il percorso di gara è ancora lungo ed il traguardo è appena visibile all’orizzonte. Questo, quando tutto va bene.
Nel nostro caso, invece, non tutto va veramente bene; a cominciare proprio dal principio. Possibile che nessuno si renda conto del fatto che l’espressione bi-genitorialità non solo è priva in se stessa di qualunque forza speciale, ma è pure di una banalità allarmante: è chiaro che i genitori sono due, e che il figlio li riconosce entrambi per tali. Se si avverte il bisogno di proclamare un dato lapalissiano è perché, sotto traccia, coltiviamo l’aspirazione di vedere il giorno in cui il figlio minorenne di genitori separati potrà continuare a rapportarsi con entrambi i genitori (e le rispettive parentele) come se questi fossero ancora uniti e conviventi.
In altri termini, noi attribuiamo al Parlamento, alla legge ed ai giudici un potere che essi non hanno: quello di fare i miracoli. Tutto ciò che possiamo onestamente sperare è che, a partire da una opzione legislativa (preferenza all’affidamento condiviso), si possa giungere, grazie ad un’opera intensa, costante e congiunta di inculturazione, a rendere meno conflittuali le separazioni e più propensi genitori, giudici ed operatori vari al rispetto dei diritti dei bambini.
Si rende necessaria, a questo punto, la condivisione di una strategia, la cui efficacia – a mio modo di vedere – dipende da due criteri: la chiara visione dell’obbiettivo finale e la rigorosità del metodo.
Obbiettivo.
L’obbiettivo, ossia il traguardo indicato dai principali strumenti internazionali, quasi interamente tradotti nel nostro ordinamento positivo interno, è raggiungibile attraverso tre direttrici: la parità giuridica fra i genitori, la difesa dell’unità familiare ed il riconoscimento della soggettività giuridica del figlio minorenne, quale titolare di propri diritti della personalità, fra cui identità, mantenimento, educazione, istruzione: diritti spendibili innanzitutto e soprattutto nei confronti dei genitori.
La ragione principale per cui – sempre a mio modo di vedere – alcune affermazioni di principio (come quello dell’affidamento congiunto) restano “sulla carta” e non riescono a tradursi in atto, sta proprio nel fatto che il pieno rispetto dei diritti del minorenne non è inquadrato fra gli obbiettivi strategici.
Mi sembra necessaria, in proposito, qualche spiegazione.
A seguito della riforma del diritto di famiglia (1975), l’autorità maritale fu abolita e si dispose che la potestà, non più patria, apparteneva ad entrambi i genitori, che dovevano gestirla d’accordo fra loro, su base paritetica. L’articolo 316, 2° co., c.c., dispose allora che <<La potestà [oggi responsabilità] è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori>>. Sorgeva quindi la necessità di stabilire modi e regole per il superamento degli eventuali contrasti, pur nel corso della convivenza coniugale, ed a tanto provvedeva lo stesso articolo 316, devolvendo la decisione al giudice; come pure faceva, in mancanza d’accordo sull’indirizzo familiare e sulla residenza comune (questioni una volta soggette alla decisione autoritativa del marito), il precedente articolo 145, ugualmente riformato.
In caso di separazione, si rendeva necessario scegliere il genitore che avrebbe esercitato la potestà (oggi responsabilità); la legge la concentrava in capo al genitore cui il giudice affidava i figli minorenni; fermo restando il potere-dovere del genitore non affidatario d’interferire nelle decisioni di maggiore interesse e, comunque, di vigilare sull’istruzione e sull’educazione della prole.
La nuova sistemazione della materia lasciava però del tutto fuori campo la posizione personale dei figli, dei quali non era prevista la consultazione. Al legislatore del 1975, infatti, non era passato neppure per la mente che il figlio potesse interloquire nelle questioni attinenti alla separazione dei genitori, anche quando si discuteva dei provvedimenti, come l’affidamento o l’onere del mantenimento, che finivano per incidere direttamente nella sua vita. Certo, poteva esprimere opinioni, in linea di puro fatto, ma non era riconosciuto in alcun modo il suo diritto d’intervenire nel giudizio, tanto meno in qualità di parte.
Il riconoscimento di diritti personali direttamente in capo al minorenne – prima di ogni altro quello di esprimere la sua opinione su ogni questione che lo interessa e d’intervenire in ogni procedura giudiziaria conseguente – sarebbe stato sancito esattamente sedici anni dopo, con la ratifica (legge 27 maggio 1991, n. 176) della Convenzione di New York del 1989 sui diritti dei fanciulli (articolo 12). Specificamente in materia familiare, l’articolo 9, co. 2, della Convenzione dispone infatti che <<tutte le parti interessate>>, quindi anche il figlio minorenne, <<debbono avere la possibilità di partecipare alle deliberazioni e di far conoscere le loro opinioni>>, da tenere in debita considerazione (articolo 12).
Questa novità è di estrema importanza per l’evoluzione del concetto di affidamento e per la conseguente disciplina normativa di esso.
All’interno di un ordinamento giuridico in cui tutti i membri del nucleo familiare, non solo i coniugi-genitori, sono titolari di diritti difendibili in giudizio, e godono quindi di una posizione giuridica paritaria nonostante la diversità dei ruoli, non si può più parlare correttamente e propriamente di “affidamento”. Nessuno è affidato a nessuno; o meglio, in un contesto solidaristico, ciascuno è tenuto a concorrere, secondo le proprie specifiche funzioni e la propria personale capacità, figli minorenni compresi, alla realizzazione dei progetti del nucleo ed al suo benessere.
In questa condizione, ogni membro ha una sua specifica responsabilità, anche se quella dei genitori, in quanto membri adulti, è certamente maggiore e più evidente. Cosicché neppure si parla più di potestà, bensì di responsabilità dei genitori.
In conclusione, allorché i coniugi si separano, la responsabilità per lo <<sviluppo armonioso e completo>> (Convenzione N.Y., 6° considerando) della personalità del figlio resta intatta in capo a ciascuno di loro, non trattandosi dell’esercizio di una potestà bensì dell’adempimento di doveri, cui corrispondono altrettanti diritti del figlio alla cura, al mantenimento, all’educazione, all’istruzione, eccetera.
Le questioni che il giudice è chiamato a risolvere, in caso di separazione coniugale, non riguardano più, propriamente, l’affidamento formale del figlio ad un genitore oppure all’altro o ad entrambi, bensì la definizione delle nuove modalità di espletamento delle responsabilità genitoriali, anche con riguardo alla convivenza col figlio ed ai diritti di visita. Qui bisogna considerare che la convivenza, a differenza dell’affidamento, non è un istituto giuridico, ma una situazione di puro fatto: uno può essere ‘affidato’ contemporaneamente a più persone separate, ma può convivere solo con una alla volta, definitivamente o temporaneamente.
Nella definizione di questo nuovo assetto il figlio minorenne avrebbe molto da proporre e da eccepire, in qualità di parte processuale, poiché non è un oggetto da affidare, ma il primo soggetto interessato al giudizio, quale titolare autonomo del diritto al pieno ed armonioso sviluppo della personalità; diritto che egli vanta, innanzitutto, nei confronti dei propri genitori, ma che potrebbe esercitare utilmente anche contro le istituzioni pubbliche corresponsabili, come il comune, la scuola, la sanità, eccetera.
Bisogna sottolineare che la posizione di parità formale fra tutti i membri del nucleo, minorenni compresi, è intesa in senso solidaristico, in vista del raggiungimento di un fine comune che consiste nel benessere della famiglia unita e nella piena realizzazione della personalità di ciascun membro. Se poi tale posizione di parità abbia favorito, almeno temporaneamente ed allo stato attuale, l’avanzata di una mentalità individualistica e la dispersione centrifuga delle componenti familiari, è questione da proporre ai sociologi ed agli studiosi del costume. Il giurista – quindi anche il legislatore, il giudice ed il difensore – non possono permettersi di esorbitare dai confini che il dato costituzionale e la logica intrinseca del sistema impongono.
Ciò significa, innanzitutto, che il figlio minorenne, in caso di cessazione della convivenza fra i genitori, conserva intatti i suoi diritti nei confronti di ciascuno di loro e può pretendere fondatamente che tali diritti non siano sacrificati dagli accordi fra adulti o, in mancanza, dalla decisione del giudice; anzi, il suo interesse ad una crescita sana ed equilibrata è preminente e superiore rispetto ad ogni altro interesse in gioco.
Una prima conseguenza di tale premessa è che il legislatore, quando disciplina i casi di cessazione della convivenza dovrebbe porsi per primo nell’ottica del figlio minorenne, il cui diritto ad una crescita piena ed armoniosa è posto a repentaglio dalle decisioni dei genitori. Agli occhi del figlio, tutte le questioni agitate dagli adulti, anche quelle relative alle modalità del c.d. “affidamento”, sbiadiscono e perdono di rilevanza giuridica.
Sarebbe grave ed inammissibile che, una volta perduta la funzione di “scudo” che la famiglia, intesa come società primordiale, aveva nei confronti di tutti i suoi componenti, il figlio minorenne non sia contestualmente dotato dei mezzi giuridici necessari per difendere la sua posizione, ormai isolata ed autonoma, di individuo avente diritto allo sviluppo.
La seconda conseguenza è che, se dunque nel giudizio di separazione il figlio è parte, soggetto titolare di diritti suoi propri e portatore di preminenti interessi, l’attenzione massima del legislatore e degli operatori del diritto dovrebbe concentrarsi sulle modificazioni del rito, necessarie per consentire al minorenne, rappresentato da un curatore speciale, d’intervenire nel processo, di svolgervi le sue difese e di prendere le proprie conclusioni, così come suggeriscono le Guidelines approvate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010.
In terzo luogo, il giudice della causa di separazione o di divorzio, in cui il minorenne è parte e deve, inoltre, essere personalmente ascoltato, non può che essere uno specialista: giudice minorile o, se si vuole, giudice degli affari familiari, ma comunque specializzato; i fondamentali diritti della persona non possono essere trattati da un giudice generalista, alla stessa stregua o, peggio, a margine di quelli economici e commerciali.
La conclusione sul punto è che, nel decidere circa il c.d. “affidamento” del figlio minorenne – se debba essere del tipo “condiviso”, come mostra di preferire la legge 8 febbraio 2006, n. 54 e le successive, ovvero a favore di uno solo dei genitori –, il giudice dovrebbe contemplare unicamente le domande e l’interesse del figlio stesso: ciò significa che non dovrebbe chiedersi se un “affidamento condiviso” sia praticabile nel caso specifico, o piuttosto chi dei due genitori abbia ragione di pretendere l’affidamento del figlio; dovrebbe chiedersi, invece, quale sia la soluzione che meglio consente al figlio di soddisfare le proprie esigenze di sviluppo, con buona pace dei princìpi e delle pretese degli adulti.
Pertanto, non vanno nella giusta direzione leggi e proposte di legge che, imponendo aprioristicamente, per ragioni di principio, un particolare tipo di affidamento, si pongono fuori dalla logica ordinamentale, interna ed internazionale, e misconoscono i diritti riconosciuti al minorenne all’interno di una nuova concezione del nucleo familiare, in cui i membri adulti possono disporre delle loro vite come meglio credono, ma non possono venir meno al comune dovere di assicurare al figlio minorenne una crescita completa ed armoniosa, e sono tenuti perciò ad accettare la soluzione più idonea a garantire tale diritto.
Insomma, può piacere o no, ma il termine affidamento, nel contesto normativo attuale, è un arnese (teoricamente) obsoleto, una parola vecchia, comunque la si voglia declinare; l’affidamento condiviso è una toppa malamente applicata ad un vestito vecchio. La strada da percorrere è quella che vede l’emersione della figura del figlio: la volontà dei genitori conta finché sono uniti o finché è concorde; in caso di dissidio, spetta al figlio, attraverso il suo rappresentante/difensore, chiedere al giudice ciò che meglio conviene al suo sviluppo.
Parlo, ovviamente, di “strada da percorrere”, non di obbiettivo raggiunto, e neppure facilmente o rapidamente raggiungibile. Però mi sembra la sola che non si perda per i campi, con annessa recita di sterili giaculatorie sulla discrepanza fra leggi scritte e pratica forense.
Metodo.
Avere concordato sull’obbiettivo non basta, se poi non si segue il metodo migliore per raggiungerlo.
La critica alla situazione attuale è importante, se serve a indirizzare le opinioni verso percorsi alternativi validi. Invece mi sembra sterile quando si limita alla lamentela, o suscita contrasti frontali fra categorie di persone o non si accorge di contraddizioni intime, qui parzialmente indicate.
È inutile lagnarsi dell’impreparazione di chi deve applicare una legge “di principio”: i princìpi generalmente fanno a pugni con la realtà, l’affidamento non può essere realmente “condiviso” da persone separate e per giunta litigiose; a parte il fatto che quel principio è retrogrado: a ben guardare, la questione non si riduce (non dovrebbe ridursi) ad una contesa fra adulti, fra chi abbia e chi non abbia maggior diritto all’affidamento, bensì dovrebbe risolversi in base all’investigazione su un diritto fondamentale del figlio; il quale però, nella causa, non è costituito e non è rappresentato, pur essendo in evidente (ma non rilevato) conflitto d’interessi con entrambi i genitori.
Inoltre, è sorprendente constatare che la specializzazione dei giudici sia invocata a correnti alternate: la richiesta di maggiore specializzazione dei giudici minorili o di creazione di un apposito organo giudiziario per le questioni familiari non è mai stata sostenuta seriamente, mentre la legge riduceva le competenze del tribunale per i minorenni su pressante insistenza degli avvocati.
L’accordo sulla bi-genitorialità è facile perché il relativo concetto, traferito in una legge, diventa una banalità: sarebbe sufficiente rileggere i Dieci Comandamenti (onora il padre e la madre). Ma credere che esso sarà finalmente tradotto in sentenza, e quindi in realtà, una volta approvato dal Parlamento, è da ingenui.
La legge può utilmente indicare una strada (il richiamo ad entrambi i genitori a svolgere responsabilmente il loro ruolo anche dopo la separazione); ma percorrere fino in fondo quella strada è un compito tutto da svolgere.
*Già Direttore dell’Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile