Non stento a credere che l’affidamento condiviso continui a trovare difficoltà e resistenze nella sua attuazione concreta, malgrado la chiara scelta del legislatore in favore della bigenitorialità. Come non stento a credere che queste resistenze riguardino prevalentemente il rapporto tra padri e figli o meglio, come mi pare più corretto dire, la relazione tra figlio e padre.
A mio parere, infatti, il diritto alla bigenitorialità va considerato a partire dal diritto del figlio minore e non dal diritto del genitore. Si dirà che sono due facce della stessa medaglia, ma anche nelle medaglie le due facce non sono identiche ed hanno caratteristiche loro proprie. Si tratta di due diverse prospettive, dalle quali lo stesso fenomeno appare in forme diverse: la prospettiva dell’adulto e la prospettiva del bambino. A quest’ultima, nelle aule di giustizia e nei media, solitamente non viene data voce o non viene dato ascolto, in violazione delle radicali riforme introdotte dalla Convenzione di N.Y e della sentenza n. 1/2000 della Corte costituzionale.
In realtà, il diritto del fanciullo di conservare la relazione con entrambi i genitori (e con l’ambiente partentale e amicale) nonostante la loro separazione, è un principio fortemente innovativo e anticipatore del costume.
Nel diritto positivo esso ha trovato una recente conferma con la legge 173/2015, che tutela il diritto del minore alla conservazione degli affetti nell’affidamento familiare e nell’adozione. Bene fa il legislatore a dare di quando in quando al costume queste spinte acceleratrici, ma è illusorio pensare che basti la pubblicazione di una norma sulla Gazzetta ufficiale per modificare di colpo mentalità e abitudini radicate.
Ricordo ancora il giovanile entusiasmo con cui, insieme a un gruppetto di amici neo magistrati, cercavamo nelle nostre decisioni di dare attuazione concreta ai principi della Costituzione: ma ricordo anche molto bene le teorie che distinguevano tra norme immediatamente applicabili e norme programmatiche, dando ovviamente la prevalenza a queste ultime: il che portava alla frequente bocciatura delle nostre sentenze.
E il medesimo ricordo conservo per la legge sull’adozione, che con la dichiarazione di abbandono e la parificazione tra figlio legittimo e figlio adottivo precorreva i tempi, e che si dovette scontrare con un’accanita difesa del vincolo del sangue e della primogenitura.
Lo stesso fenomeno, a mio parere, si verifica con la legge 54/2006, la cui piena attuazione deve passare attraverso la cruna dell’ago del costume e del contesto, e richiede tempo per essere metabolizzata.
E il nostro è un contesto dove i centri famiglia e i servizi per l’infanzia mancano o sono insufficienti; dove la competenza a decidere le questioni dell’affidamento dei figli è attribuita a giudici generalisti sparsi nelle più piccole sedi e a pubblici ministeri usi a muoversi solo in materia penale; dove i genitori sono per lo più difesi da avvocati privi di specializzazione; dove il figlio minorenne non è ascoltato e tanto meno rappresentato nel giudizio di separazione ed in quelli che lo riguardano.
Ed è un costume dove i ruoli di coppia sono ancora fortemente differenziati in famiglia; dove l’asimmetria di genere è antica; dove il figlio è considerato proprietà dei genitori, dove il miglior interesse del bambino non viene valutato caso per caso ma viene fatto coincidere quasi per presunzione assoluta con le scelte del genitore.
Occorre uscire dall’equivoco. La l. 54/2006 non basta da sola a garantire al bambino la bigenitorialità, e di riflesso non basta ai padri a garantire la conservazione del loro ruolo, o meglio dei doveri e dei diritti che impone loro l’art. 30 della Costituzione. Occorre ripensare l’intero sistema di protezione dei diritti del fanciullo per renderlo coerente con la Convenzione delle N.U. e gli strumenti sovranazionali comunitari, e in quell’ambito anche i “diritti riflessi” dei genitori troveranno realizzazione.
*Già Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma