Ben volentieri unisco la mia voce a quanti hanno sentito di rispondere alla lettera accorata dell’Avv. Gaetana Paesano sulla “promessa” non mantenuta della legge sull’Affidamento condiviso.
La mia pratica professionale come mediatore familiare (iniziata quando l’affidamento era solo esclusivo!) ha certamente riconosciuto nella legge 54/2006 quella cornice culturale – prima ancora che normativa – che poteva sembrare un traguardo irrealizzabile.
Quanto lavoro e impegno era stato profuso con le famiglie prima di veder finalmente riconosciuta la co-genitorialità, la indispensabilità e pari importanza dei legami di attaccamento che – per i figli – non possono essere mai scissi dagli amori “smarriti” degli adulti!
A tutt’oggi penso che le “conquiste di civiltà” non solo richiedono tempi troppo lunghi, ma – una volta tradotte in norme – richiedono di essere costantemente coltivate e interiorizzate, reinterpretate e migliorate nella loro attuazione sociale. Il rischio, altrimenti, è che inaridiscano. Come una pianta può crescere solo se certe condizioni sono rispettate, così un bambino può crescere sufficientemente bene solo se i suoi genitori perseguono il suo reale benessere, se sono responsivi e affettuosi, se lo tengono al riparo dai loro litigi, se non gli sottraggono – con l’esposizione ai continui conflitti – il diritto all’infanzia.
Nella stanza di mediazione la mia posizione di “terzietà” non sempre è stata facile, sia per evidenti sofferenze e ingiustizie a carico dei padri, sia – sul versante materno – per mancanza di sostegno o insufficiente impegno da parte dell’altro genitore. Ho imparato a trattare le famiglie caso per caso, cercando nei padri e nelle madri quelle risorse che né la legge poteva declinare né il figlio poteva richiedere, pur vedendosi riconosciuto il diritto all’ascolto. Nella stanza del mediatore i genitori devono apprendere la parità genitoriale e se ciò non si è ancora verificato – anche per via dell’applicazione della norma che talvolta è paritaria solo nella declaratoria – si cerca di ottenere il massimo riconoscimento di entrambi attraverso un faticoso impegno negoziale che mette al centro i bisogni del bambino.
La legge 54/2006 non ha dato risposta a tutte le nostre aspettative, ma ha contribuito almeno a non mettere più in dubbio che la responsabilità genitoriale verso un figlio è un dovere di entrambi i genitori. La sua applicazione, tuttavia, risente della maternal preference; in particolare il genitore collocatario – più spesso la madre – ottiene più facilmente decisioni che talvolta possono riflettere una visione pregiudiziale dei giudici a suo favore. Del resto non possiamo neppure nasconderci che nel nostro Paese le donne/madri soffrono un gap occupazionale che costituisce un serio problema sociale. Su questo fronte tutti coloro che – a vario titolo – operano in campo famigliare, dovrebbero esercitare a pieno il loro impegno per “fare un lavoro di rete” rivolto a mitigare gli effetti sui bambini di disparità genitoriali in casi estremi intollerabili.
Nella mia pratica professionale ho imparato che ci sono genitori più competenti e genitori più insicuri e/o inefficaci, indipendentemente dal loro genere. Ho conosciuto madri così lontane da un modello di capacità genitoriale, così diverse da ogni riferimento culturale, tali che si rendeva necessario dover esercitare un grande sforzo per immaginarle in grado di accompagnare i loro figli nel percorso di vita. Ho parimenti conosciuto padri molto distanti dai loro figli che – tuttavia – riuscivano a riavvicinarsi ai loro figli solo se sostenuti dalla capacità e fiducia delle madri. Il quadro è molto variegato e spinge sempre a cercare competenze, risorse e affetti anche nei contesti parentali allargati, nelle istituzioni scolastiche che dovrebbero essere aggiornate più adeguatamente per rispondere ai bisogni dei bambini.
Non ci dobbiamo stancare in ogni sede di aprire un confronto interdisciplinare con quanti lavorano nel territorio insidioso e complesso delle scissioni familiari, dove si annidano interessi, passioni e sentimenti spesso inconsapevoli che – dobbiamo ammetterlo – la legge fa anche fatica a normare.
Dobbiamo necessariamente mantenere un dialogo critico e aperto con i magistrati (ne ho conosciuti alcuni veramente capaci, sensibili e appassionati); dobbiamo tendere verso i cambiamenti normativi che si rivelano più utili a interpretare la complessità delle famiglie, cercando di migliorarne le zone d’ombra e dando ognuno il contributo offerto dal proprio punto d’osservazione.
Non dobbiamo soprattutto smettere di proteggere realmente i bambini, esercitando quello sguardo empatico e vigile verso i loro bisogni senza il quale nessuna decisione può essere la migliore.
*Presidente IRMeF, Istituto per la Ricerca e la Formazione sulla Mediazione Familiare. Già ordinario di Psicologia Dinamica, Università di Roma “La Sapienza”